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Cinesemica e fonemica
Cinesemica e fonemica. Wilhelm Wundt, che faceva attenzione all’esperienza immediata, già nel lontano 1890, prima che la psicologia si evolvesse in molte ramificazioni, ragionava sul linguaggio gestuale, deducendo che fosse interessante nelle ricerche dello psicologo. Con lungimiranza, tipica dei geni e delle persone creative, capì nei segni dei sordo(muti), nei segnali degli Indiani d’America, nei gesti dei monaci cistercensi forme di comunicazione naturale e di rapida intelligibilità.
Sappiamo che «la lingua è un sistema di segni esprimenti delle idee» (F. de Saussure). Le idee, perché siano comunicate nella forma più nota e diffusa, fanno riscontro ai movimenti dell’apparato fonatorio e respiratorio permettendo così la presenza del segno vocale, per mezzo del quale le idee si vestono per andarsene a passeggio nel mondo (…). All’inizio c’è l’impegno dei polmoni che, si può dire, promuovono la materia prima, l’aria, che fornisce la spinta all’azione fonica; poi ci sono le corte vocali; la cavità laringofaringea; la lingua che esercita un’intensa attività d’estensione per tutto il suo volume e, infine, l’apparato labiobuccale e dentale. Tutti questi apparati sono come un’orchestra di diversi strumenti governati dall’udito, che potrebbe essere paragonato ad un inflessibile direttore d’orchestra. Se non ci fosse la maestria di direzione dell’udito, ogni organo che partecipa alla formazione della parola o del suono andrebbe per conto suo e creerebbe anarchia comunicativa e, di fatto, incomprensibilità. Pertanto il sordo di nascita non è che «non può» parlare, si trova nella difficile, e spesso impossibile condizione di non riuscire coordinare tutte le componenti che originano la parola vocale senza che fosse presente, appunto, un capace direttore d’orchestra che presieda alla magnifica sinfonia di «parlare a voce».
Qualsiasi logopedista, a cui è affidato il piccolo sordo o ipoacusico, riconoscerà che ha a che fare con un bambino con voce alterata. Il bambino udente è favorito, con naturalezza, nell’utilizzo del codice sonoroacustico, grazie alla supervisione dell’udito che coordina – come abbiamo notato – gli apparati fisiologici per la produzione vocale. Compariamo: a) —› il bambino udente sovrintende alla produzione linguistica del codice vocale (la parola) col senso dell’udito; b) —› il bambino sordo sovrintende la produzione del segno manuale col senso della vista. I due bambini si differenziano, per lo stimolo sensoriale, a partire dagli ultimi mesi di gestazione. Nel bambino udente il segno vocale si presenta prettamente come entità fondante sull’innatismo imitativo che – col passare le settimane – si identifica di più, e sempre meglio, col mondo sonoroacustico dell’ambiente. Il piccolo convive in uno stimolo-risposta (Skinner B. S. 1957), immerso in un «ascolto e ripeto». E afferma la sua presenza testimoniando, agli adulti, d’essere uno di loro perché è capace di utilizzarne i codici. Nel bambino sordo la produzione del segno della lingua è, di solito, convenzionale perché – se non è esposto alla lingua dei segni – finirà per inventarsi, egli stesso, il gesto per comunicare l’oggetto o quanto altro percepito con la vista. Possiamo proporre tanti esempi: la percezione di una sedia sospinge il bambino ad elaborare il gesto motorio, consistente di dirigere le mani in apposite aree del corpo: e ciò si rivela molto di più d’una semplice imitazione fono-labiobuccale, perché implica l’impegno autonomo di un processo cognitivo. Il nostro piccolo – pensiamoci bene – è un genio che si crea la lingua per comunicare! Voi avete assistito, per caso, ad un udente che, dopo aver percepito il mondo attorno a sé, o determinati oggetti, elabori segni?! Procediamo con queste riflessioni. Supponiamo che io – dalla nascita – non sia esposto alla conoscenza del «segno» della sedia, non abbia idea di un oggetto che ha uno schienale, quattro aste di legno, un’asse quadrata eccetera. Come potrei nominare l’oggetto? Che so, potrei indicarlo col segno vocale «tak», associandolo al fatto che, sedendomi sulla sedia, odo spesso un tipico rumore (tak). Io allora siedo sul «tak» e non sulla «sedia», codice vocale pubblicizzato e utilizzato dalla comunità in cui vivo.
Ciascun bambino, col senso della vista, elabora significativi segni manuali di comunicazione utilitaristica. «L’uomo inventa simboli e li capisce: l’animale no.»20 Il bambino che ode ha la fortuna di trovare segni già “pronti”. Come se gli avessimo apparecchiato la tavola di veicoli (i codici) e gli venga detto: con essi potrai comunicare idee, emozioni, insomma esprimere le tue potenzialità. A questo punto siamo convinti che non sia lecito che la società predisponga dei codici perché – a nostro giudizio – è anche una forma di controllo dei processi culturali e linguistici! La lingua ha regole (la grammatica) che impasta (e imposta) i codici nell’humus delle emozioni, dalle quali ha genesi il linguaggio ad personam. Se non c’è quest’evoluzione soggettiva, alla fine ci esprimiamo tutti allo stesso modo, senza effettivamente nulla comunicare.
Ricordiamo che il cisema (o cinesema) è solo una parte del movimento che, uniti ad altri, danno origine al «segno» significativo. Per essere espliciti facciamo una comparazione: i fonemi, combinandosi fra loro, creano un numero illimitato di unità (parole) dotate di significato (Carlotta Butera, Università Bologna 2014, tesi in via di stampa). Di fatto il fonema fa riferimento al “fono” e, il cherema, come indicato sopra, al movimento, vale a dire l’uno origina la parola sonoroacustica l’altro la parola visuomanuale che denominiamo «segni». La psicolinguistica che fa riferimento alla comunicazione del sordo, sin dall’utilizzo del «codice», impone – come è facilmente intuibile – uno studio differenziato. Le unità minime sono prive di significato, statiche. Così il fonema, per ‘mostrarsi’ deve coniugarsi con un simile o una famiglia, diventando cioè morfema. Per esempio: se pronuncio il fonema ca esso non ha significato od è lasciato all’interpretazione personale, aleatoria e fantasiosa; se, invece, unisco – per fare un esplicito esempio – il fonema ca col fonema sa ho casa (che è una parola): e chi mi ascolta, se conosce la lingua italiana, ha il referente di un edificio. Allo stesso modo accade nel processo dinamico, quando ci moviamo dal cisema verso il segno visuomanuale. La mano predispone la configurazione: se non seguirà il movimento, tutto resta incerto, diciamo pure muto all’occhio. Il cisema è il componente primario di un lungo processo di sviluppo di abilità motorie alle quali sono associate espressività e posture, per rendere intelligibile il significato, talvolta questo fine – per espletare il segno – è anche un gioco che implica padronanza e conoscenza delle aree del corpo, elasticità di movimenti delle mani e, soprattutto, possesso di espressività che fa la funzione – si può dire – della tonalità per le parole.
Nel momento in cui obblighiamo il bambino sordo a sostituire i cinesemi coi fonemi, che egli non può ascoltare in modo intelligibile, con difficoltà pertanto d’essere rafforzati nell’interscambio con i pari e gli adulti. Quando insistiamo, nel piccolo, di frenare la genesi dello sviluppo motorio è vera e propria violenza psichica che mina anche i processi psicocognitivi. E’ la stessa condizione dell’individuo che, privato di una sensazione, è obbligato ad interrelazionare col mondo circostante con la difficoltosa, invece di utilizzare, al massimo, la sensazione afferente o sana. Così ci sono logoterapeuti che continuano a lavorare sul «canale in difficoltà», invece di sfruttare il canale intatto: e alla fine le sensazioni non sono né visive né uditive. Nel bambino sordo la comunicazione intenzionale ha genesi dal pensiero visivo. Furth ce lo ricorda nella sua opera Pensiero senza linguaggio (1971, trad.it.), affermando che – il pensiero della maggior parte delle persone – è costruito sulla verbalità. Lane (1989), riprendendo gli studi e le ricerche sul famoso ragazzo (Victor) selvaggio dell’Aveyron, ammette che il bambino, nel tentativo di comunicare col mondo, crea una forma di pantomima permettendogli di manifestare i bisogni essenziali: la libertà e il cibo.25 Victor utilizza una pantomima o gesti goffi perché non è stato immerso nei segni significativi, non ha un codice adeguato che gli permetta di «vestire» immediatamente il pensiero, d’accedere al referente se non altro mimicamente. Il problema psicologico e linguistico di Victor è assai complesso. Come parecchi studiosi di pedagogia clinica hanno fatto notare. Il ragazzo «selvaggio» ha sperso gli anni fondamentali dello stimolo al linguaggio e – tali privazioni – hanno causato un evidente deficit intellettivo.
Quando qualche insegnante afferma che nell’attività didattica la comunicazione con la lingua dei segni è limitata, o che non è paragonabile alla doviziosità della comunicazione verbale nei processi apprenditivi, dimentica dire che non ha utilizzato veri e propri segni con referenti precisi, di solito ha sfoggiato una pantomima o gesti istintivi lasciando l’interlocutore nell’interpretazione aleatoria o personale. Il ricevente che si trova a vedere pantomima rimane perplesso, al contrario avrà certezza di fronte al segno significativo. L’alunno sordo segnante si attende, dal suo docente, l’utilizzo di codici di una lingua strutturata di evidenti regole grammaticali, che noti studiosi dello sviluppo del linguaggio (Chomsky e altrui) hanno individuato anche nella lingua dei segni. Per questo motivo apprenderla e utilizzarla, in ambito didattico, gioverà moltissimo. Il segno – e ci ripetiamo per l’ennesima volta – trasmette emozioni, pensieri, apre a domande, comunica esperienze e tanto altro. Grazie a questi codici linguistici che il bambino sordo, o con difficoltà di audizione, potrà sviluppare compiutamente il linguaggio visuomanuale, di cui necessità!.
Bisogna studiare i processi psicolinguistici del sordo, fondati sul canale visivo, allo scopo di metterlo nella condizione di distinguere quel che è cinestetico (a lui naturale) da ciò che è fonemico prima e morfemico poi se, ovviamente, sarà in grado di appropriarsi della parola vocale nell’esercizio logopedico. C’è un’altra considerazione da fare: l’udente – grazie alla combinazione dei fonemi – è in grado di dire tutto nella varietà dei lessemi, costruendo una moltitudine di frasi a scapito, spesso, del significato. Anche perché all’udente piace parecchio ascoltarsi. Ciò è ancora più pressante nel bambino sordo che è contento e gratificato nell’osservarsi le mani costruire il segno sul proprio corpo o nello spazio neutro. Se noi, per malasorte e pregiudizio, interveniamo bloccandone o frenandone l’iter d’apprendimento, avverrà che l’evoluzione, o la capacità, o l’abilità dei movimenti – principi della produzione del segno – sarà poi deficitaria: e così lo sviluppo linguistico cinestetico del bambino sarà per sempre minato per approdare ad un idoneo dialogo segnico. E in definitiva non è giustificabile o convincente bloccare – nel bambino – lo sviluppo psicolinguistico quando vuole appropriarsi del segno giustificando – noi – questa decisione alludendo che la società non comunica in lingua dei segni! La conseguenza del blocco è l’alienazione dei processi cognitivi conducendo ad una relazione deficitaria con tutto l’ambiente, divenendo un problema psicologico e relazionale per i familiari e – nella vita – sarà sopraffatto dall’ansia e depressione. Certe scelte inducono a riflettere sociologicamente sulla vita presente e futura del sordo, quel salto intuitivo di rendere responsabile i dirigenti scolastici delle scuole specializzate (ormai quasi del tutto soppresse) e ordinarie affinché non gli sia impedito l’accesso alla lingua dei segni: e alla cultura che, dalla stessa, proviene o si sviluppa nel corso degli anni.
Renato Pigliacampo
dal I capitolo (paragrafo 5 ) pp. 36-41 del libro Renato Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, Roma 2009.
lc009 (2014)
PER SAPERE DI PIU’
Renato Pigliacampo
Wilhelm Wundt
Harlan Lane
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