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Lessico e disabilità, alcune riflessioni
Io, giornalista pubblicista – e sordo come Valentina – ho sempre creduto che a buoni intenditori dovrebbero poter bastare poche parole. La tesi estesa è utile all’esame di laurea, anche per mostrare implicitamente quello che non si è magari ben capito. Ma dopo – e il “dopo” lo è ormai anche per la Paoli – è necessario essere sintetici, non arrampicarsi sugli specchi quasi a dire: “vedete come sono brava?”, i giudizi li devono dare gli altri.
Beh, complimenti in ogni caso a Valentina per la sua erudizione, ma in quanto alla riflessione sugli eufemismi dietro i quali si vorrebbe nascondere la realtà e quindi che « …siano pochi i termini precisi e “scottanti” che indicano in modo diretto e poco diplomatico realtà scomode… » sarei d’accordo, ma contesto il guazzabuglio di perifrasi per arrivare poi ad affermare che «… è il contesto, non la parola in sé, che determina gran parte del significato nella comunicazione verbale e scritta…», qui bastava precisare la “comunicazione”, senza l’eufemistico “verbale”, poichè i sordi possono eventualmente usare anche un modo di esprimersi non verbale, “diverso”, ma se è acculturato cosa cambia? Anche la Lingua dei Segni Italiana, LIS, favorisce la comunicazione e arricchisce la Cultura.
Marco Luè
Fonte: Superando.it del 29-12-2011
Lessico e disabilità: alcune riflessioni
di Valentina Paoli (*)
«Non è la parola in sé – scrive Valentina Paoli – ma il contesto a determinare gran parte del significato nella comunicazione verbale e scritta. Se dunque il contesto sociale è discriminante, allora qualsiasi parola lo sarà; viceversa, in un contesto di integrazione, le parole… saranno solo parole». Una serie di riflessioni sul lessico della disabilità, “navigando” tra eufemismi, politicamente coretto e multiculturalismi.
Sono numerosi i dibattiti e le iniziative riguardanti la giusta terminologia da usare quando si parla di “disabilità”, ammesso che anche questo stesso termine sia giusto, appropriato, politicamente corretto, inoffensivo, scevro da pregiudizi e adeguatamente epurato da ogni discriminazione di sorta.
Non sono poche le persone e le associazioni di categoria che lamentano che la discriminazione verso i disabili cominci proprio dalle parole con cui li si designa o con cui ci si rivolge a loro (1). L’accusa parte dal fatto che si pensa che la scelta di determinate parole “categorizzanti”, e di conseguenza “ghettizzanti” e “discriminanti”, sia sintomo di una voluta discriminazione da parte di chi parla o scrive.
La risposta immediata della società a tali critiche è di stampo nominalistico: si epura il lessico da tutte le parole offensive e si dà la stura ad una serie di circonlocuzioni che evitano accuratamente le parole “criminali”.
Serve? La tesi opposta al nominalismo, la filosofia realistica, quella del nomina sunt consequentia rerum [“i nomi sono orrispondenti alle cose”, n.d.R.] dice di no. Secondo tale punto di vista, infatti, la scelta lessicale nel colloquiare quotidiano è sintomo passivo della posizione che riveste nella società l’oggetto significato. In altri termini, non usiamo termini discriminatori con l’intenzione di compiere un atto pregiudiziale, ma al contrario è perché l’oggetto di riferimento è effettivamente discriminato che il termine discriminante usato è – purtroppo – calzante e adeguato. La lingua, insomma, è lo specchio della società (2).
Per fare un esempio, l’evoluzione storica dei termini usati per indicare le persone sorde riflette il meccanismo a cascata del progresso della scienza medica e pedagogica, che determina a sua volta un miglioramento dell’intervento abilitativo, il quale a sua volta risulta in un cambiamento nella condizione cognitiva, linguistica e sociale delle persone sorde. Tale ultimo cambiamento rende ingiustificati e obsoleti i termini precedentemente usati e determina il mutamento lessicale nel parlare comune:
1. Nell’antichità, e fino al Novecento, i termini diffusi indicavano la non conoscenza dei rapporti udito/pensiero/voce/lingua: àlalos, moghilàlos àfonos, dieftàrmenos, koùfos, eneòs, sordomuto (3); le persone sorde non avevano la possibilità di apprendere la lingua orale e pertanto venivano considerate mute e soprattutto mentalmente ritardate. Da qui la valenza negativa dei termini.
2. Nel Novecento, poi, quando le conoscenze mediche avevano consolidato la relazione udito/voce/lingua, ma ancora non erano giunte le tecnologie e le conoscenze per la risoluzione del problema linguistico, la terminologia utilizzata includeva: sordomuto, audioprivo, audioleso, non udente, sordastro, sordoparlante, anacusico, ipoacusico, debole di udito, minorato dell’udito.
3. Attualmente, i progressi della tecnica e la consolidata certezza che le persone sorde possono acquisire una normale competenza linguistica da una parte, e l’affermarsi del linguaggio mimico gestuale dall’altra, hanno fatto sì che il vocabolario sia stato modificato fino ad adottare il termine sordo nel primo caso e Sordo nel secondo. Il termine sordomuto, invece, è stato cancellato anche dalla legislatura, perché ormai anacronistico (l’ironia vuole che sia anacronistico per due motivi completamente opposti fra loro, ma questa è un’altra storia).
Un altro brillante esempio di un’evoluzione molto più recente e rapida della terminologia è un simpatico passaggio di un articolo di L.M. Lieberman (4), relativamente al rapido cambiamento dei termini che indicano la dislessia: «I used to think I was brain-injured. Then they told me I was not brain-injured, but had minimal brain dysfunction. Then they told me it was self defeating to think of myself as dysfunctioning. I was dyslexic. The they told me dyslexic was overused. I was learning disabled. I still can’t read worth a damn, but I have a great vocabulary. (Jules Feiffer)» («Pensavo di avere un problema intellettivo. Poi mi hanno detto che non avevo un problema intellettivo, ma avevo una piccola disfunzione cerebrale. Poi mi hanno detto che era deprimente pensare a me stesso come “malfunzionante”. Ero dislessico. Poi mi hanno detto che “dislessico” era troppo generico. Avevo un disturbo dell’apprendimento. Ancora non riesco a leggere un tubo, ma ho un bel vocabolario. (Jul es Feiffer)»).
Si potrebbe pensare che oggi siano pochi i termini precisi e “scottanti” che indicano in modo diretto e poco diplomatico realtà scomode. Non è così. Sordo, cieco, dislessico, paraplegico… Non useremmo mai queste parole quando parliamo, specialmente se la persona a cui ci rivolgiamo rientra in uno di questi aggettivi (sono solo aggettivi!).
Quando parliamo, scattano – per automatismo – potentissimi meccanismi inibitóri: sono gli schemi culturali atavici di cui siamo tutti prigionieri (5), fra i quali la potentissima interdizione linguistica che porta alla ricerca continua di termini non offensivi, conducendo così ad un’ampia sinonimia (6).
Sono proprio i concetti interdetti a mettere in moto una continua ricerca di termini alternativi i quali, tuttavia, a loro volta richiamano comunque il concetto interdetto e diventano essi stessi una fonte a parte di sinonimi, in un processo autorinforzante senza fine.
Un parlante italiano medio non può che andare in crisi di fronte a una messe così abbondante di terminologie di volta in volta giuste o inesatte o addirittura offensive. Come evitare dunque di avvicinarsi così pericolosamente al fulcro dell’innominabile? Conversare diventa una pericolosa passeggiata in punta di piedi in un campo minato. Parlando con (o di) una persona sorda, come mettere in pratica l’interdizione linguistica che vieta nel modo più categorico e assoluto di fare riferimento a un difetto fisico per non essere politicamente scorretti? In nostro soccorso arriva la miracolosa parafrasi che nel periodare allontana sempre di più la fonte del disturbo, l’orecchio.
Il sordo diventa quindi non udente, immediatamente eliminato perché non politicamente corretto, in quanto contiene una negazione. La soluzione successiva è disabile sensoriale uditivo, anche questo da scartare: il termine “dis-abile”, infatti, sottrae valore e dignità. Non resta che sottolineare allora l’abilità, invece che la disabilità: persona diversamente udente. E tuttavia, anche questa locuzione ha il difetto di portare in sé una diversità (diversamente) negando allo stesso tempo la fonte stessa della diversità (udente). Forse meglio persona con difficoltà uditiva? Qualcuno, tempo fa, suggeriva ironicamente abilmente diverso. Oggi si è molto attenti ad usare il termine “persona” per indicare il pieno riconoscimento dell’appartenenza al genere umano: persona con disabilità uditiva, persona con handicap uditivo, persona con difficoltà uditiva, locuzioni però che per un motivo o per un altro violano sempre e comunque il principio del politically correct.
Il politically correct.
Imporsi di essere a tutti i costi politicamente corretti implica innanzitutto un paradosso di base, ovvero quello di essere consapevoli della scorrettezza stessa. Il politically correct, se analizzato fino in fondo, sembra non essere del tutto giustificato. Lo si provi ad applicare pedissequamente e l’assurdità del risultato sarà lampante.
Qualcuno ci ha provato: James Finn Garner ha riscritto alcune fiabe in perfetto stile politically correct; il risultato è che «i bambini imparano […] che Cappuccetto Rosso, la nonna e il lupo hanno fondato “una famiglia alternativa basata sul reciproco rispetto, sulla cooperazione, e hanno vissuto insieme nel bosco, felici e contenti”. Cappuccetto Rosso era una bimba risoluta e femminista che andava nella casa della nonna “non perché fosse un lavoro da donna, ma perché era generosa e voleva infondere un senso di solidarietà”. Il lupo non più cattivo, dal canto suo, godeva di uno status al di fuori della società che lo lasciava libero di non adeguarsi “ai canoni conformistici della società occidentale”. Poteva indossare la cuffia della nonna perché non era ostacolato da “nozioni rigide e tradizionaliste su ciò che è maschile e femminile”. Nelle favole di Garner i nani, trasformati in “verticalmente svantaggiati”, possono aspirare all’amore di Biancaneve su un piede di par ità con il bel principe azzurro» (7).
Evitare qualcosa a tutti i costi per nasconderlo ha l’effetto contrario di enfatizzarlo, una sorta di “triangolo di Kanizsa” mentale (8). Per quanto ci si ingegni a cambiare colore, forma o dimensione, il triangolo assente rimane evidente, ingombrante e lampante. Il non detto è immediato almeno quanto l’esplicito, delineato da un silenzio più che significativo. Il non detto è un dato di fatto, affermato per negazione.
Far finta che la disabilità non esista ha l’unico effetto di acuirne la presenza. Gli eufemismi sono vesti che oltre a non coprire niente in modo efficace (9), possono essere essi stessi fonte di imbarazzo, «facendo risaltare la crudezza dell’oggetto» (10). La ricerca perenne di termini che evitino un fastidioso quid, pur rappresentandolo, determina l’uso dell’eufemismo.
Eufemismo: una foglia di fico linguistica
L’eufemismo è definito dal Dizionario Devoto-Oli come «la sostituzione di un’espressione propria e abituale con una attenuata e alterata, suggerita da scrupolo morale o religioso o da riguardosità». L’espressione attenuata e alterata tuttavia non è del tutto efficace per eliminare la fonte del disagio, tanto che il dottor Linville, professore dell’Oxford College presso l’Università di Emory, considerava gli eufemismi come linguistic fig leaves, “foglie di fico linguistiche”.
L’inefficacia dell’eufemismo – strumento principe del politically correct – deriva dal fatto che il problema non sarà mai il nome da assegnare, ma sarà il problema stesso (11). Cambiare un nome non è la soluzione del problema. Cambiare il nome cambia soltanto il nome. Lo dimostra il fatto che «un’autentica riqualificazione professionale non avviene attraverso il semplice passaggio formale da bidello a collaboratore scolastico, da netturbino a operatore ecologico o da infermiere a operatore sanitario» (12). Sono solo foglie di fico per dire in modo politicamente corretto che la situazione… non cambia.
Multiculturalismo e politically correct
Assistiamo oggi a una profonda frattura tra i fautori dell’omologazione tout-court e coloro che sostengono il multiculturalismo. Questi ultimi difendono a spada tratta le identità etniche, le tradizioni locali, ovvero l’identity politics, politica delle identità, figlia del politically correct (13): il nuovo status symbol è l’adorazione della diversità.
L’ONU stessa si adegua al cambiamento dei tempi e al nuovo “razzismo” riformulato come un culturalismo e differenzialismo radicali: nel 1975, infatti, proclama nell’articolo 4 della Dichiarazione dei Diritti delle Persone Handicappate (allora “handicappato” evidentemente non era una “parola criminale”), il diritto «ai trattamenti medico-psicologici e funzionali, ivi compresi gli apparecchi di protesi e ortesi; al riadattamento professionale, agli aiuti, ai consigli e agli altri servizi intesi a garantire la valorizzazione ottimale delle sue capacità e attitudini, ad accellerare il processo della sua integrazione o della sua reintegrazione sociale». Ovvero, nel 1975, in base al principio del melting pot, dell’omologazione globale, del modello universalistico, gli uomini erano tutti uguali, disabili e non, automaticamente iscritti nella categoria dell’umanità, e tutti tenuti ad esserlo: il principio dell’integrazione dominava sovrano.
Leggiamo ora l’articolo 3 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006 (ecco la foglia di fico che copre a malapena gli “handicappati” del 1975), trent’anni dopo la precedente dichiarazione: «Il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa». I tempi sono cambiati ed è cambiata anche la forma di espressione del “razzismo” che si è riformulato oggi «come un culturalismo e un differenzialismo, entrambi radicali» (14).
In altre parole, oggi si rispetta talmente tanto la diversità che non si fa più niente per cancellarla, anzi la si esalta. Si dà il via libera a nazionalismi, rivendicazioni di autonomia, identitarismi, individualismi e, per quanto riguarda la sfera della disabilità, che i disabili rimangano tali, Sordo è bello!
In linea con il cambiamento dei tempi, nel 1975 la Dichiarazione ONU invitava a fornire tutte le condizioni e ausilii in modo da consentire alle persone “diverse” di essere uguali, mentre oggi si invitano le persone “diverse” a rimanere tali, in nome di un assoluto rispetto della diversità. Ed è in nome di questo stesso assoluto rispetto della diversità, rispetto delle molteplici culture, che nasce la posizione ideologica del multiculturalismo, che si esprime attraverso il politically correct per giustificare il prevalere della separazione sull’integrazione.
Che fare?
Visto dunque che il politically correct non solo non è utile, ma può essere anzi pericolosamente discriminante, dato che la terminologia usata non è causa di discriminazione, ma ne è piuttosto un effetto passivo, una spia (15), va da sé che è la cultura, piuttosto che il vocabolario, ad essere il campo di battaglia decisivo (16).
Occorre per noi tutti cambiare la prospettiva culturale, l’approccio “al diverso” (Diverso da chi?, recitava il titolo di un film), riappropriarsi degli ideali non del tutto banali di uguaglianza, educando a non stereotipizzare o stigmatizzare l’altro. Andare oltre le etichette cognitive, sociali e linguistiche, scrollarsi di dosso gli stereotipi cristallizzati sulle nostre spalle in tanti anni di emarginazione, guardare all’altro come ad un proprio uguale, avendo il coraggio di chiamarlo per quello che è, consapevoli che si tratta solo di aggettivi non qualificativi.
È il contesto, non la parola in sé, che determina gran parte del significato nella comunicazione verbale e scritta (17). Se il contesto sociale è discriminante, allora qualsiasi parola lo sarà; viceversa, in un contesto di integrazione, le parole… saranno solo parole.
D’altronde per coloro che invece denunciano i soprusi linguistici, forse sarebbe bene ricordare che il serbatoio di immagini cui attinge la nostra memoria linguistica non sempre coincide con la razionalità delle nostre idee. È impossibile imbrigliare l’impetuosità linguistica ed è parimenti ingiusto condannare le persone per ciò che sgorga, inconsapevolmente, dal loro bagaglio linguistico (18).
Valentina Paoli
Note:
(1) «La discriminazione verso i disabili ha inizio nelle parole con cui li si indica o ci si rivolge a loro» (Francesca Dragotto, a cura di, Parole con l’H, Estratti degli Atti del Convegno tenutosi a Roma il 31 marzo 2000, fonte visionabile cliccando qui).
(2) Edoardo Crisafulli, Igiene verbale: il politicamente corretto e la libertà linguistica, Firenze, Vallecchi, 2004.
(3) Giuseppe Gitti, Sordità e apprendimento della lingua, Milano, Franco Angeli, 2008.
(4) L.M. Lieberman, Euphemisms, in «Journal of Learning Disabilities», 1984, Vol. 17, Issue 5.
(5) Crisafulli, op. cit.
(6) Nora Galli de’ Paratesi, Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo, Torino, Giappichelli, 1964, poi Milano, Mondadori, 1969.
(7) Massimo Arcangeli (a cura di), La lingua imbrigliata: a margine del politicamente corretto 01, in «Italianistica Online», 30 novembre 2004 (cliccare qui).
(8) Il triangolo di Kanizsa è una nota illusione ottica, composta da una “figura” nella quale si “vedono” due triangoli equilateri bianchi l’uno sovrapposto all’altro, anche se nessuno dei due è effettivamente disegnato.
(9) James M. Kauffman, M. James, Appearances, Stigma and Prevention, in «Remediale & Special Education», 2003, Vol. 24, Issue 4, p. 195.
(10) Flavio Baroncelli, Il razzismo è una gaffe: eccessi e virtù del politically correct, Roma, Donzelli, 1996, citato in Crisafulli, op. cit.
(11) Lieberman, op. cit.
(12) Arcangeli, op. cit.
(13) Crisafulli, op. cit.
(14) Pierre-André Taguieff, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, Milano, Raffaello Cortina, [1998], 1999.
(15) Lieberman, op. cit.
(16) Crisafulli, op. cit.
(17) Ibidem.
(18) Ibidem.
Altre fonti bibliografiche:
– Nora Miller, Glimpse, in «ETC: A Review of General Semantics», 2004, Vol. 60, Issue 4, pp. 396-400.
– Ralph Slovenko, Euphemisms, in «The Journal of Psychiatry & Law», 2006, Vol. 33, Issue 4, pp. 533-548.
nw161 30 dicembre 2011
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