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L’importante è giocare: intervista a Daniela Rossi (Newsletter della Storia dei Sordi n. 504 del 29 maggio 2008)
L’importante è giocare: intervista a Daniela Rossi.
Daniela è autrice de Il mondo delle cose senza nome, romanzo autobiografico da cui hanno tratto l’omonima fiction televisiva per la Rai con Elena Sofia Ricci. Il romanzo racconta la sua impegnativa esperienza di madre di un bambino con problemi di udito. Oltre che scrittrice Daniela Rossi è psicologa infantile.
Quale gioco ti appassionava di più da bambina?
Il gioco di giocare ma uno in particolare non c’era.
Ricordo quelli ispirati alla tecnologia e ai robot: prendevo grossi cartoni, disegnavo sull’esterno tasti e apparecchiature. Ritagliavo sportelli e una fessura per far passare monete poi mi nascondevo dentro queste macchine immaginarie.
Seduta all’interno avevo funzioni diverse: se mi davano un foglio con domande restituivo commenti o previsioni. Se introducevano mele le sbucciavo. C’era l’opzione juke box e per 50 lire cantavo una canzone. Se dallo sportello mi passavano la foto di un parente o amico offrivo un commento estetico. Ero attrezzata per produrre rumori, fischi, cigolii che accompagnassero le fasi di lavoro delle mie macchine.
Quando ero fuori dai cartoni correvo su una bicicletta che consideravo un cavallo. Le infilavo erba nel fanale anteriore e l’avevo attrezzata con redini e sella rudimentali. Oppure leggevo, scrivevo, disegnavo, ballavo, dicevo messa per uno stuolo di bambole, costruivo città con i Lego, giocavo a nascondino, a Monopoli, a barattare figurine e cartoline, ad arrampicarmi ovunque.
Oggi sei ancora capace di giocare? se sì, a che cosa?
Da quando è nato mio figlio ho dedicato la leggerezza e la libertà del gioco soprattutto a lui. Solo la scuola media ci ha tolto parte di questa possibilità. Tre anni di bombardamento tra lezioni e verifiche su una storia fatta solo di guerre e un programma che enumera e dettaglia disastri ecologici, hanno reso le sue giornate più pesanti.
Il gioco però è parte di me e torna ogni volta che trova uno spiraglio.
Allora gioco dipingendo, scherzando, imitando, ballando, inventando.
Qual è, secondo te, la funzione del gioco nell’adulto e nel bambino?
Nel bambino dovrebbe costituire uno spazio libero in cui esprimere desideri e sogni che ancora non hanno forma e peso di progetti. Sono i più personali e veri e nel gioco possono essere individuati e sperimentati.
I bambini che giocano ( e non quelli fagocitati dalla play station o da altre attività rigidamente organizzate da industriali adulti) esprimono quello che sono, lasciano intuire ciò che li anima e che andrebbe espresso anche nella vita futura.
L’ideale sarebbe che lavoro e gioco poi coincidessero. Svolgere un’attività che risponda alla propria natura, che non costringa a mutilarsi, che non renda le inclinazioni naturali asfittiche, inutili, silenti, moribonde.
Per la maggior parte delle persone non è così. Per questo il loro gioco diventa distacco, dimenticanza, eccesso, sfogo, liberazione o qualunque cosa il lavoro non permetta.
Gioco come evasione, gioco come malattia…
Evasione è già triste.
Bello sarebbe vivere attività e relazioni che non inducessero senso di costrizione e bisogno di fuga. Allora si giocherebbe e basta. Si giocherebbe perché è un modo di essere, come dovrebbe esserlo il lavoro. Espressione vitale in armonia con quello che siamo.
Il gioco come dipendenza è una brutta soluzione alla voragine della mancanza.
Si insinua nel nostro buio, dove ancora chiediamo di essere e di essere amati e lo invade di luce artificiale ma non ci vuole molto a capire che abbiamo lasciato entrare un vampiro.
Sei appassionata di videogames?
No e neppure di giochi tradizionali come mazzi di carte o celebri scatole.
Le idee di “schizzare adrenalina”, “ammazzare il tempo” o “trovare qualcosa da fare in compagnia” sono molto distanti dalla mia idea di gioco.
Giocare per me è scivolare in una dimensione diversa, più vitale, fantasiosa, libera e nell’improvvisazione.
A tuo figlio che cosa consiglieresti?
Un bambino che sta bene e non è condizionato gioca spontaneamente, ha le sue preferenze, è presente, curioso, creativo.
Quando mio figlio era piccolo avevo eliminato ogni oggetto pericoloso che si trovasse alla sua altezza e poteva toccare qualunque cosa, aprire ogni sportello o cassetto, curiosare ovunque.
Qualcuno temeva che diventasse per questo un vandalo. Al contrario ha imparato ad osservare, conoscere e rispettare le cose.
Gli fornivo giochi e materiali ma lasciavo che fosse lui a scegliere come utilizzarli.
Ora che è più grande l’unica cosa che gli ho consigliato è stata di non buttare il tempo libero nei videogiochi e di utilizzarlo invece per scoprire il cinema.
Il suo gioco preferito, a parte qualunque genere di sport, oggi è proprio quello. Ha una collezione di magnifici film e libri fotografici sull’argomento.
Un mondo bellissimo e vario, uno spazio libero che gli permette di vivere una ricchissima gamma di emozioni nonostante l’incombere di un programma scolastico che non lascia spazio ai sogni.
Fonte: wuz.it Autore: Di Gian Paolo Serino – nw504
Newsletter della Storia dei Sordi n. 504 del 29 maggio 2008