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Le mie prigioni di Silvio Pellico (Newsletter della Storia dei Sordi n.209 del 22 marzo 2007)

Pellico Silvio, nacque a Saluzzo in Provincia di Cuneo, 25 giugno 1789 e morì a  Torino, 31 gennaio 1854. Patriota, scrittore e poeta italiano, noto soprattutto come autore di Le mie prigioni.
Dopo gli studi a Pinerolo e a Torino, si reca a Lione per fare pratica nel settore commerciale. Al suo rientro in Italia nel 1809 si stabilisce a Milano; qui, giovane entusiasta della poesia neoclassica, frequenta Vincenzo Monti e Ugo Foscolo. Comincia allora a scrivere, specialmente per il teatro, tragedie in versi di impianto classico come Laodamia ed ‘Eufemio di Messina.
Nel 1814 diventa istitutore nella case del conte Porro Lambertenghi. Stringe relazioni con personaggi della cultura europea come Madame de Stael e Friedrich von Schlegel e italiana come Federico Confalonieri, Cesare Romagnosi e Giovanni Berchet. In questi circoli venivano sviluppate idee tendenzialmente liberali e rivolte alle possibilità di indipendenza nazionale: in questo clima nel 1818 viene fondata la rivista Il Conciliatore, di cui Pellico è redattore e direttore.
Il 18 agosto 1815 a Milano viene rappresentata la sua tragedia Francesca da Rimini, che reinterpreta il noto episodio dantesco alla luce delle influenze romantiche e risorgimentali del periodo lombardo.
L’arresto di Pellico e di Maroncelli Pellico e gran parte degli amici fanno parte della setta segreta di tipo carbonaro dei cosiddetti “Federati”; questa viene scoperta dalla polizia austriaca: il 13 ottobre 1820, Pellico, Piero Maroncelli e altri vengono arrestati, processati e rinchiusi della fortezza dello Spielberg a Brno in Moravia. La dura esperienza carceraria, che si conclude con la grazia imperiale e il rimpatrio nel 1830, costituisce il soggetto dell’opera autobiografica Le mie prigioni, che ebbe grande popolarità ed esercitò notevole influenza sul movimento risorgimentale, anche se il suo tono dolente non si avvicinava agli atteggiamenti dei patrioti più giovani. Metternich ammise che il libro aveva danneggiato l’Austria più di una battaglia perduta. Va ricordato anche che scrisse un testo di Memorie dopo la scarcerazione andato perduto.
Successivamente Pellico pubblicò altre tragedie: Gismonda da Mendrisio, Leoniero, Erodiade, Tommaso Moro e Corradino. Pubblicò anche il libro morale I doveri degli uomini (1834) e Poesie di genere romantico.
Travagliato da problemi familiari e fisici negli ultimi anni della sua vita interruppe la produzione letteraria e visse come segretario e bibliotecario di Juliette Colbert nel Castello dei Marchesi di Barolo.
Le mie prigioni è un testo puramente autobiografico scritto da Silvio Pellico che si svolge in un arco di tempo che va dal 13 ottobre 1820, data in cui venne arrestato l’autore, al 17 settembre 1830, giorno del suo ritorno a casa.
In essa Pellico descrive la sua esperienza di detenzione nel carcere dello Spielberg in seguito alla sua adesione ai moti carbonari.
Pellico iniziò la stesura dell’opera nel 1831, incoraggiato dal suo confessore, e la concluse nel 1832.
Grazie al ministro Barbaroux, in carica a quel tempo, il libro riuscì a superare i problemi derivanti dalla censura e ad essere pubblicata dall’editore Bocca nel mese di novembre del 1832.
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera (agg. Aprile 2007)

Il sordomuto di Silvio Pellico
Ben poche sono nella letteratura italiana, ed anche in quelle straniere, le pagine dedicate ai Sordi. Uno dei rari esempi di quella che potremmo dire la «letteratura dei sordi» è il brano sul piccolo sordomuto che si legge nelle «Mie prigioni» di Silvio Pellico, brano che spesso viene riportato nelle antologie italiane, soprattutto in quelle per la Scuola Media. È tra i passi più celebri della letteratura italiana risorgimentale, appunto perché ci presenta, col piccolo sordomuto – una delle figure indimenticabili – insieme al carceriere Schiller – ritratte dal Pellico prigioniero allo Spleilberg.
Il brano è il seguente:
«Fin da’ primi giorni io  aveva acquistato un amico. Non era il custode, non alcuno de’ secondini, non alcuno de’ signori processanti.  Parlo per altro d’una creatura umana. Chi era? Un fanciullo, sordo e muto, di cinque o sei anni. Il padre e la madre erano ladroni, e la legge li aveva colpiti. Il misero orfanello veniva mantenuto dalla Polizia con parecchi altri fanciullo della stessa condizione. Abitavano tutti in una stanza in faccia alla mia, ed a certe ore privasi loro la porta, affinché uscissero a prendere aria nel cortile.
Il sordo e muto veniva sotto la mia finestra, e mi sorrideva, e gesticolava. Io gli gettava un bel pezzo di pane: ei lo prendeva, facendo un salto di gioia, correva a’ suoi compagni, ne dava a tutti, e poi veniva a mangiare la sua porzioncella presso la mia finestra, esprimendo la sua gratitudine col sorriso de’ suoi begli occhi.
Gli altri fanciulli mi guardavano da lontano, ma non ardiano avvicinarsi: il sordomuto aveva una gran simpatia per me, né già per sola cagione d’interesse. Alcune volte, ei non sapeva che fare del pane ch’io gli gettava, e mi faceva segni ch’egli e i suoi compagni avevano mangiato bene, e non potevano prendere maggior cibo. S’ei vedea venire un secondino nella mia stanza, ei gli dava il pane perché me lo restituisse . Benché nulla aspettasse allora da me, ei continuava a ruzzare innanzi alla finestra con una grazia amabilissima, godendo ch’io lo vedessi. Una volta un secondino permise al fanciullo d’entrare nella mia prigione: questi, appena entrato, corse ad abbracciarmi le gambe, mettendo un grido di gioia. Lo presi fra le braccia, ed è indicibile il trasporto con cui mi colmava di carezze. Quanto amore in quella cara animetta! Come avrei voluto poterlo far educare, e salvarlo dall’abbiezione in che si trovava!
Non ho mai saputo il suo nome. Egli stesso non sapeva di averne uno. Era sempre lieto, e non lo vidi mai piangere se non una volta, che fu battuto, non so perché dal carceriere. Cosa strana! Vivere in luoghi simili sembra il colmo dell’infortunio, eppure quel fanciullo avea certamente tanta felicità, quanta possa averne a quell’età il figlio di un principe. Io facea questa riflessione ed imparava che puossi rendere l’umore indipendente dal luogo. Governiamo l’immaginava, e staremo bene quasi dappertutto. Un giorno è presto passato, e quando la sera uno si mette a letto senza fame e senza acuti dolori, che importa se quel letto è piuttosto fra mura che si chiamino prigione, o fra mura che si chiamino casa o palazzo?
Ottimo ragionamento! Ma come si fa a governare l’immaginativa? Io mi provava, e ben pareami talvolta riuscirvi a meraviglia: ma altre volte la tiranna trionfava, ed io indispettito stupiva della mia debolezza»
La figura del mutolino del Pellico è magistralmente delineata e l’episodio raggiunge toni di profonda commozione, perché sia la figura che l’episodio sono sprazzi di vita vera e dolorosamente vissuta. Ne deriva una sensazione più che romantica, patetica ed affettuosa, basata su reciproci sentimenti di simpatia e di affetto, che permeano l’incontro di due anime e il ritrovarsi di due infelici in uno stesso ambiente di sofferenza e di amore.
La bellezza artistica dell’episodio, la sua capacità di far presa sul lettore, il tono di sincerità e la veridicità dei sentimenti espressi nel brano riportato sono stati sempre elogiati; né saremo noi a metterlo in discussione. Le note che seguono vogliono essere solamente delle considerazioni che vengono spontanee a chi è vicino all’ambiente dei Sordi.
Analizzando il brani passo passo, si può rilevare nel Pellico una concezione del sordomuto che a volte è psicologicamente centrata, mentre altre volte appare insabbiata nei soliti pregiudizi (solo in parte scusabili col riferimento ai tempi).
Infatti, sin dalle prime battute, ad un tono di commiserazione e quasi di sorpresa che il nuovo amico fosse «una creatura umana» si accompagna la sottile osservazione con cui distingue i due mali catalogando il piccolo come «sordo e muto»; al cupo ritratto d’un quadro familiare e sociale fatto di genitori «ladroni» e d’un figlio «misero orfanello» si contrappone una certa atmosfera di simpatia nel rappresentare il mutolino che gli «sorrideva» mentre gesticolava; alla visione del patriota prigioniero che «gettava un bel pezzo di pane» al piccolo sordomuto che per un istante assume l’aspetto di un piccolo accattone  fa contrasto subito dopo la considerazione che l’animo di quel bambino è pur capace di sentimenti magnanimi e fraterni, poiché distribuisce il pane tra i suoi compagni, lasciando per lui una «porzioncella» che mangia esprimendo gratitudine «col sorriso de’ suoi begli occhi».
Il prosieguo del racconto si compiace di specificare che la simpatia del piccolo sordo-muto per lo scrittore non era interessata, ma spontanea, perché anche quando il bimbo non aveva fame, ugualmente «continuava a ruzzare innanzi alla finestra con una grazia amabilissima», ed anzi era attaccamento profondo, tanto vero che, la volta che poté entrare nella cella del prigioniero, corse ad abbracciarlo con gioia e lo «colmava di carezze». Quando amore – aggiunge il Pellico – in quella cara animetta!. Come avrei voluto poterlo educare e salvarlo dall’abbiezione in cui si trovava».
È il punto cuminante del brano, sia perché il racconto  raggiunge il più altro grado di commozione, sia perché è mostrata la pienezza del sentimento che è possibile nel piccolo sordomuto, sia infine perché lo scrittore dà segno di aver capito che i Sordi sono esseri umani come gli altri e se cadono in «abbiezione» non è certo per innata cattiveria dovuta alla loro minorazione: basta educarli fin da piccoli, e diventano come gli altri, migliori degli altri, in tutti i campi e sotto tutti gli aspetti!.
In passo finale sottolinea il carattere gioviale del piccolo sordomuto; e lo fa con una certa meraviglia, come se il mutolino non comprendesse la sua situazione di prigioniero e avesse «tanta felicità» non per incoscienza del proprio stato, quando per innata facoltà di contentarsi di quel che offre concretamente l’esistenza. Riflettiamo su questo fenomeno, dice il Pellico: è tutta questione di «immaginativa»; basta saperla «governare», e si può essere felici anche in carcere!. Ma lui, il grande patriota, ci si provava e non vi riusciva, attribuendo questo insuccesso a «debolezza»: i sordi, al contrario, pare dire lo Scrittore, hanno per natura questa «strana» forza, questa virtù tutta particolare di …contentarsi e far tacere la fantasia. Certo, i Sordi hanno questa forza e questa virtù, ma si tratta della tipica… forza della necessità, per cui – come si dice – fanno di necessità virtù.
Autore: Augusto Graniero da La Settimana del Sordo, 1974.

nw209 – (agg. 2007)


Newsletter della Storia dei Sordi n.209 del 22 marzo 2007

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