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L’autobiografia del maestro Claudio Sacchi (Newsletter della Storia dei Sordi n.189 del 22 febbraio 2007)
Sono nato a Bagolino, in provincia di Brescia, il 1°giugno 1922. Bagolino è un paese di montagna, di antica povertà contadina. Un paese, però, che è stato anche libero Comune, e di tale sua antica storia conserva le strutture architettoniche e urbanistiche.
Mio padre non faceva il contadino. Quando ero ancora piccolo, andavo in montagna, d’estate, con un parente a fare pascolare le capre.
Mio padre lavorava come muratore. Suonava la tromba nella banda comunale ed era un ballerino del carnevale. La mamma, nata a Bagolino, aveva lavorato alcuni anni a Madrid e a Parigi in casa di famiglie nobili. Conserviamo ancora una sua fotografia con il contrassegno di una duchessa di Madrid e due vocabolari, francese e spagnolo.
La tragedia si abbatté sulla mia famiglia quando mio padre morì a 41 anni, cadendo sopra un filo dell’alta tensione, mentre stava lavorando nella centrale del Gaver. Mia madre partorì l’ultima figlia un mese dopo la sua morte, e sei anni dopo moriva anche lei.
Avevo due anni e mezzo quando, per un colpo di sole, divenni completamente sordomuto; avevo sei anni quando è morto il mio papà.
A otto anni venni affidato all’Istituto per sordomuti Pavoni di Brescia. Fu dopo tre anni di un complicato sistema di rieducazione fonica che cominciai a parlare.
Mentre c’era la mamma, tornavo a casa d’estate e durante quelle vacanze andavo sempre in una stalla vicina a casa mia a disegnare le capre. Morta la mamma non tornai più a casa, neppure per le feste di Natale e Pasqua. Un signore veniva a prendermi per Santo Stefano, ma per Natale e Pasqua non ho altro ricordo che quello di me, bambino, solo nel refettorio.
Nel collegio ho cominciato a disegnare. Una volta alla settimana c’era lezione di disegno. Non ero soddisfatto dei miei disegni, continuavo a correggerli. Per Santa Lucia, agli altri bambini regalavano i giocattoli, a me regalavano i colori.
A vent’anni cominciai a fare i ritratti dei compagni. Poi guadagnai i primi soldi con quadretti decorativi: fiori copiati dai fiamminghi e madonne copiate da Raffaello e Perugino. Li vendevo in alcuni negozi della città, oltre a quelli venduti a conoscenti. Ma il mondo che volevo esprimere era ben altra cosa. Se ne era accorto anche il direttore del collegio, don Faustino Moretti, che decise di mandarmi all’Accademia di Brera.
Avevo ormai 28 anni e non possedevo che la licenza elementare. Allora si poteva accedere all’Accademia con un esame di ammissione, e per un anno studiai con una professoressa, consigliata dall’architetto Redaelli di Milano, che mi impartì lezioni di architettura, disegno del nudo, storia dell’arte, chimica, scienze, con un prezzo men che simbolico.
Superai l’esame e proseguii gli studi sotto la guida di Aldo Carpi, Cristoforo De Amicis, Umberto Vittorini, Italo Valenti. Non potevo certo fare la vita del semplice studente, dovevo mantenermi e la vendita di quadretti non era sufficiente.
Mi presentai al direttore dell’Istituto per sordoparlanti di Milano, con una lettera di don Moretti. Nell’Istituto non c’era neanche un letto libero e per undici giorni mi adattai a dormire in palestra sopra il tavolo da ping-pong, la giacca sotto il capo come cuscino. Saputo di questa “sistemazione” don Moretti ne trovò un’altra nella baracca dei muratori pendolari dove, però, c’era un vero letto, finché un signore mi offrì, senza compenso, un’autentica camera con colazione compresa. Purtroppo il mio stomaco esigeva altro cibo, e quando la vendita dei quadretti era magra, usufruivo anche per pranzo dei barboni, per dieci lire potevo avere una minestra con pane e mortadella.
L’entusiasmo non era sufficiente a tenermi in salute e mi piombò addosso un grosso esaurimento. Fu a questo punto che alcune famiglie che trascorrevano le vacanze a Bagolino cominciarono a invitarmi qualche volta a cena a casa loro.
Un fratello di don Moretti, che aveva un’impresa di vetrate, l’ultimo anno dei miei studi mi commissionò il disegno di una vetrata, e potei finire tranquillamente l’Accademia.
Tornato a Brescia, mi stabilii nell’Istituto e cominciai a dipingere il mio mondo. Lavoravo nei vari spazi che mi si offrivano occasionalmente: nella calzoleria il mattino, in camera il pomeriggio, talvolta in solaio. Il pittore Pietro Leddi mi offrì gratuitamente una mansarda in contrada del Cavalletto: fu il mio primo studio.
Avrei voluto affittare anche un appartamentino, ma nessuno si fidava di un pittore dalle incerte entrate. Così rimasi nell’Istituto fino a 45 anni, con l’autorizzazione a uscire la sera solo tre volte alla settimana e solo fino alle dieci. Non era certo la situazione migliore per allacciare rapporti umani e culturali.
Intanto, però, potevo esprimere nei miei quadri ciò che viveva in me e cominciarono le prime mostre. Illustri critici si interessarono della mia arte e contribuirono a rompere la barriera del silenzio che per tanti anni mi aveva tenacemente avvolto.
Giunsero anche i primi premi, e potei acquistare un appartamento. Mia sorella venne a vivere con me, e finalmente cominciai un’altra vita. Dopo qualche anno potei comperare anche lo studio in un vecchio palazzo che domina il tempio Capitolino.
Chi mi viene a trovare, oltre a guardare i miei quadri, può godere di una delle più suggestive visioni della città di Brescia. Tra luglio e ottobre lavoro in un altro studio, a Bagolino, e da lì posso ammirare i monti, il fiume, gli orti della mia valle.
nw189
Newsletter della Storia dei Sordi n.189 del 22 febbraio 2007