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Beato Giovan Battista Scalabrini (Newsletter della Storia dei Sordi n.175 del 2 febbraio 2007)

Nato a Fino Mornasco (Como) l’8 luglio 1839, Giovan Battista Scalabrini fu ordinato sacerdote il 30 maggio 1863. Nei primi anni di sacerdozio fu professore e poi rettore del Seminario comasco di San Abbondio; nel 1870 divenne parroco di San Bartolomeo. Il 30 gennaio 1876, a 36 anni, fu consacrato vescovo di Piacenza.
Compì cinque volte, personalmente, la visita pastorale alle 365 parrocchie della diocesi; celebrò tre sinodi, di cui uno dedicato al culto eucaristico, diffondendo fra tutti i fedeli la comunione frequente e l’adorazione perpetua; riorganizzò i seminari, riformò gli studi ecclesiastici, anticipando la riforma tomistica di Leone XIII; consacrò duecento chiese; fu infaticabile nell’amministrazione dei sacramenti, nella predicazione, nell’educazione del popolo all’amore attivo della Chiesa e del Papa, nel culto della verità, dell’unità e della carità.
Di questa virtù fornì prove eroiche, nell’assistenza ai colerosi, nella visita agli ammalati e ai carcerati, nel soccorrere i poveri  e le famiglie decadute, nella generosità del perdono. Salvò dalla fame migliaia di contadini e operai, spogliandosi di tutto, vendendo i cavalli, il calice e la croce pettorale regalatagli da Pio IX. Fondò un istituto per le sordomute, organizzò l’assistenza alle mondine, società di mutuo soccorso, associazioni operaie, casse rurali, cooperative, e tutte le forme di Azione Cattolica.
Definito da Pio IX «Apostolo del Catechismo», volle che fosse insegnato in tutte le parrocchie in forma di scuola, anche per gli adulti, ideò e presiedette il Congresso Catechistico Nazionale del 1899, primo al mondo, e fondò il primo periodico catechistico.
Era convinto che i sentimenti di religione e di patria potevano e dovevano conciliarsi nell’animo degli italiani: per la pace delle coscienze e la libertà del ministero apostolico lottò e soffrì per la Conciliazione fra Chiesa e Stato. Ma non essendo maturi i tempi, si volse a preparare la pacificazione religiosa sul terreno dei fatti, accordando la fede religiosa e l’amore patrio nelle opere a favore degli emigranti.
Colpito, fin dall’inizio dell’episcopato, dallo sviluppo drammatico dell’emigrazione italiana, diventata un fenomeno di massa, lo Scalabrini si fece apostolo dei milioni d’italiani, costretti dalla fame a espatriare, spesso in condizioni di semischiavitù, sempre nel pericolo di perdere la pratica religiosa e la fede.
Con l’approvazione di Leone XIII, il 28 novembre 1887 fondò la Congregazione dei Missionari di S. Carlo (Scalabriniani) per l’assistenza morale, sociale e legale degli emigranti nei momenti della partenza, dell’arrivo e della prima ambientazione nei nuovi posti di lavoro.
Indusse S. Francesca Saverio Cabrini, la Madre degli Emigrati, a partire per l’America nel 1889, per prendersi cura dei bambini, degli orfani e degli ammalati italiani. Fondò egli stesso, nel 1895, la Congregazione delle Suore Missionarie di S. Carlo per gli emigrati; e aprì il campo dell’emigrazione anche alle Suore Apostole del S. Cuore, che lo venerano come loro fondatore.
Morì in concetto di santità il 1° giugno 1905. 30 anni dopo, fu aperta la causa di canonizzazione. Il 16 marzo 1987 il Papa Giovanni Paolo II ha promulgato il Decreto che riconosce che G. B. Scalabrini ha esercitato le virtù teologali e le virtù  annesse in grado eroico.


 

Lettera Pastorale di Monsignor Vescovo di Piacenza intorno all’istruzione dei Sordo-muti, 8.9.1880, Piacenza, Tip. G. Tedeschi, 1880, pp. 25

Ai sordomuti Scalabrini aveva rivolto un pensiero nella prima lettera pastorale; aveva ripreso il discorso nella seconda lettera, preoccupato per l’istruzione religiosa di questi infelici, e aveva comunicato alla diocesi l’intenzione di erigere un istituto per provvedere alla loro riabilitazione.
Ora può annunciare ai fedeli la realizzazione del progetto. Non era un’iniziativa nuova nella storia della chiesa perché il cristianesimo, nelle sue aperture verso gli emarginati aveva già compiuto per i sordomuti quanto il paganesimo non aveva mai osato programmare; per questo anche la comunità ecclesiale piacentina doveva avviare un’opera di squisita carità cristiana già in atto in altre chiese locali.
Il Vescovo osserva che il sordomuto, mancando della parola e dell’udito, è come uno straniero nella sua stessa patria perché è privo di un patrimonio di nozioni e di esperienze del passato comuni a tutte le altre persone. Vive nell’angoscia di chi non può neppur far conoscere il proprio desiderio di conoscere. Si mostra preoccupato soprattutto per l’ignoranza religiosa delle verità fondamentali del cristianesimo, da cui deriva l’impossibilità di risolvere i problemi più importanti della vita; nota poi la fragilità morale di queste creature per il mancato sostegno soprannaturale ottenuto con la frequenza dei sacramenti.
Dopo una rilevazione statistica condotta durante la prima visita pastorale, Scalabrini ha aperto in città un istituto per sordomute affidandolo alle religiose di S. Anna. Ora chiede ai fedeli un contributo finanziario, anche se modesto; fa un appello alle autorità politiche e amministrative perché rendano possibile anche agli uomini, privi della parola e dell’udito, l’istruzione elementare che la recente riforma scolastica ha resa obbligatoria per tutti i cittadini; al clero raccomanda di segnalare, su appositi moduli, la presenza nelle parrocchie di sordomuti a volte volutamente nascosta dai familiari.
Dal giorno che furono dalle labbra di Gesù Cristo rivolte agli Apostoli quelle sublimi parole: andate per tutto l’universo, insegnate a tutte quante le genti, si mossero, que’ magnanimi, per recare dovunque, attraverso di tutti gli ostacoli, di tutti gli stenti, di tutte le persecuzioni, la legge di salute civilizzatrice del mondo.
Da quel giorno, Venerabili Fratelli e Dilettissimi Figli, incominciarono a sorgere le Chiese cristiane, e, appresso alle medesime, andarono via via moltiplicandosi gli asili e le scuole della gioventù, specie degli orfani e degli abbandonati, i ricoveri pietosi della errante mendicità, i generosi ospizii della infermità desolata e tutte quelle maniere di ammaestramenti e soccorsi, onde la Religione di Cristo venne mai sempre in aiuto agl’infelici ed agli oppressi, con quei prodigi di zelo e di carità che il solo suo genio poteva creare ed ha effettivamente creato.
Ne è prova incontestabile, fra le altre, la educazione dei Sordo-muti. Sì, fu essa la cattolica Religione, che compendiò e coronò gl’innumerevoli suoi benefizi, intraprendendo nell’educazione di queste povere creature ciò, che la sapienza pagana non aveva osato giammai, e felicemente compiendo ciò, che era stato oggetto lungo tempo dei desiderii piuttosto che delle speranze comuni.
Ministri pertanto e discepoli di una Religione, che è tutta viscere di carità e che ha fatto pei Sordo-muti prodigi stupendi, inauditi, non farete voi, V. F. e D. F., qualche cosa per essi? Ah, quanto a Noi, vel confessiamo, più che il dovere, ne sentiamo il bisogno: charitas Christi urget nos. Il perchè Nostro intendimento questa volta è appunto di perorare innanzi a voi la più importante e più utile delle cause, qual’è la causa dei poveri Sordo-muti.
Altro perciò non faremo che esporvi in breve lo stato miserando in cui si trovano essi naturalmente, se abbandonati; quindi la estrema necessità di venir loro in ajuto; e siamo certi che le Nostre parole troveranno un’eco pietosa nel cuore di tutti voi, che, in fatto specialmente di carità, avete dato in ogni incontro luminosissimi esempi.
Non vi ha sulla terra sventura, pari alla sventura del povero Sordo-muto. Fornito di quelle facoltà, di cui fu larga ad ogni uomo la Provvidenza Divina, egli è privo di quell’organo meraviglioso, per cui scendono all’anima le soavi armonie, si svolgono le affezioni più care della famiglia, si nutrono i sentimenti più elevati della fede e si aprono, per così dire, le porte di quel santuario, in cui la coscienza domina sovrana.
La parola, questa potenza concreata al pensiero e rivelatrice di mondi ideali, questo vincolo misterioso, che congiunge alla fisica la morale natura, che unisce intelletto ad intelletto e cuore a cuore, va bensì a percuotere l’orecchio di lui, ma senza effetto di sorta, come il dardo lanciato nel marmo.
Cresce egli pertanto, cotesto innocente figlio della sventura, in mezzo alla società, ma straniero quasi alla medesima. Il tesoro delle cognizioni comuni, delle quali a tutti è dato potersi arricchire, per lui sta rinchiuso; tace per lui l’esperienza dei secoli andati, e il patrimonio delle sue cognizioni è ristretto a quel pochissimo, di che i proprii bisogni, la propria riflessione, la esperienza propria hanno potuto ammaestrarlo, simile in ciò al selvaggio della foresta che nulla intende di quanto vedesi attorno.
Anzi, a ben riflettere, o Dilettissimi se la condizione del Sordo-muto s’agguaglia pienamente a quella del selvaggio, rispetto all’ignoranza dell’intelletto, essa le è di molto inferiore rispetto alle amarezze del cuore.
Fu detto che la fame della verità non è meno prepotente di quella del pane quotidiano, ed e così veramente. Siane prova il fanciullo dotato della parola, che mai non rifinisce d’interrogarvi ora sopra di una cosa, ora sopra di un’altra, e s’indispettisce e mena strepito e piange, se di subito non venga appagato.
Quale pertanto non deve essere il tormento del Sordo-muto, che sente dentro la stessa fame di sapere e si vede privo persino del beneficio di interrogare! Vede gli altri discorrere fra loro, e, a seconda dei loro discorsi, comporre il volto a riso, a pianto, a meraviglia, ed egli non può in guisa alcuna scoprirne la causa. Arde del desiderio di comprendere e di essere compreso, e non può nemmeno aver modo di far conoscere questo suo desiderio! Forza è quindi si trovi, ben vedete, in uno stato di continua amarezza, di violenza dolorosa, ed ahi, quanto dolorosa! O voi, che amate trattenervi sovente in dolci colloquii coi vostri simili, comunicando ad essi i vostri pensieri ed affetti, immaginate quale per voi sarebbe quel giorno in cui foste per sempre condannati ad un ferreo silenzio! Eppure non è questa che una delle pene cui è soggetto il Sordo-muto per tutto il corso di sua mortale carriera.
E pensare, o Dilettissimi, che il numero di cotesti infelici è sì grande! Dalle più accurate statistiche infatti chiaramente risulta, che in media fra diversi paesi si può ritenere quasi esatta la proporzione di un Sordo-muto ogni mille e cinquecento individui, il che ci fa conoscere che più di ventimila Sordo-muti sono in Italia e seicentomila nel mondo! In questa Nostra vastissima Diocesi la proporzione di uno a mille e cinquecento trovasi esattamente verificata, per le attente ricerche che ne abbiamo fatte Noi stessi. durante la sacra Visita Pastorale.
Ciò stringe il cuore di chi vede in quei meschinelli, non dei poveri sventurati soltanto, dei difettosi, degl’infermi, che reclamano un temporale soccorso, ma delle anime che non conoscono le verità della fede. Sì, Dilettissimi; se per tutti il Sordo-muto, senza istruzione, è un essere ragionevole che non ragiona, un orfanello isolato in famiglia, un solitario in mezzo agli uomini, un selvaggio nella civil società; nella Chiesa di Dio, per noi, e sopratutto un’anima digiuna del pane di vita, un infedele quanto alla fede attuale, un ignorante di tutte le verità rivelate, di tutte, anche delle più elementari, necessarie a sapersi di necessità di mezzo. Oh, in questo punto di vista, non è a dire, il bisogno del Sordo-muto si fa estremo e il relativo provvedimento assume per Noi il carattere non di semplice opera di beneficenza e di umanità, ma di religione altresì e di giustizia.
Non ha il Sordo-muto cognizione alcuna di Dio, nè delle cose di Dio! Se a tal cognizione infatti non arrivano i fanciulli dotati della facoltà di udire, ove manchino dell’istruzione opportuna; se, pur troppo, vediamo sovente fanciulli i quali, trascurando lo studio catechistico, non sanno le principali verità della religione, anche dopo che hanno sentito tante volte parlarne; come credere che possa giungere a conoscerle il Sordo-muto, destituito com’è di ogni mezzo, isolato in grembo alla famiglia ed alla società, colla notte profonda che regna nel suo intelletto e col silenzio sepolcrale che lo circonda? Avrà egli bensì un tal quale concetto dell’Ente Supremo, ma oh, quanto confuso ed erroneo!
Il celebre Sordo-muto Massieu scrisse, che egli  nella sua infanzia adorava il cielo e non Dio, perocchè nol vedeva. Moltissimi poi, fatti adulti ed istruiti, assicurarono che essi nella loro prima età, adoravano il sole, come il grande padrone della natura e il regolatore dell’universo, e altri il fuoco, come causa prima di tutte le cose.
Gioverà forse a dar loro un’idea più esatta di Dio e delle verità rivelate la sola domestica istruzione, quale suol darsi volgarmente per via di cenni? E’ questo appunto il quesito che, nella circostanza memoranda della definizione dogmatica dell’Immacolato Concepimento di Maria, alcuni pii Sacerdoti, convenuti a Roma, indirizzarono a varii Istitutori e distintissimi Personaggi. Ebbene; quattro E.mi Cardinali, venti Arcivescovi e Vescovi e più di venti Istruttori di Sordo-muti, appartenenti a varie nazioni, usi a trattare lungamente con quei meschinelli, asserirono di avere attentamente esaminato il quesito e di averlo fatto esaminare a uomini competenti, e conchiusero, che senza un metodo speciale, colla sola istruzione domestica, non può il Sordo-muto giungere in alcun modo al conoscimento delle verità di ordine saprannaturale.
Così è pur troppo, V. F. e D. F., e una dolorosa esperienza ha fatto in più luoghi rilevare che molte di queste povere creature vivono e muojono fra noi, senza aver conosciuto Gesù benedetto e Maria Vergine, e senza mai aver fatto alcun atto meritorio per la vita futura.
Nè osta il vedere la compostezza e devozione esterna che molti fanciulli e fanciulle, nati col doppio vizio della sordità e mutolezza, mostrano in Chiesa e nei divini uffizii, il che è indizio d’intelligenza. Non osta, diciamo; imperocchè ciò non esce dalla cerchia di atti puramente esterni, appresi dall’esempio e dalla imitazione, esercitati per abitudine o per timore. Inchinarsi, segnarsi, inginocchiarsi, giunger le mani, percuotersi il petto e tutto ciò fare a tempo, a regola, come fanno gli altri, e meglio ancora che non facciano gli altri, è disciplina che può insegnarsi benissimo a forza di premii e di castighi, in breve spazio di tempo e senza alcuna difficoltà. Non è a tali apparenze di pietà e di religione che debbasi prestar fede, o Carissimi, sibbene alla testimonianza dei medesimi Sordo-muti, i quali, giunti a matura età ed istruzione, confessarono essere stati riputati per fanciulli religiosi, perchè la loro persona atteggiavano a pii movimenti, ma della pietà e religione non aver avuto mai neppure l’idea, mentre nulla, affatto nulla intendevano di ciò che veniva loro comandato di fare.
Ripetiamolo adunque: non ha il Sordo-muto, abbandonato a sè stesso, cognizione alcuna di Dio, nè delle cose di Dio ! E se è così, chi può dire quanto maggiormente si aggravi la misera sua sorte?
Il mondo naturale non sarà altro per lui che un mistero, nè altro per lui che un mistero sarà la vita dell’uomo. Il terribile assalto infatti del dolore, le lacrime della virtù, l’ipocrisia del vizio, i precetti del dovere, la potenza del pentimento, la speranza del perdono, il sublime delle affezioni, il sacrificio delle passioni, il martirio della povertà, i contrasti delle false amicizie, le ingiuste persecuzioni non si spiegano senza Dio. E che mai sarebbe per noi il giorno dell’ultimo addio, se il raggio della immortalità non rischiarasse la tomba? No, non v’ha che la Religione la quale conforti l’uomo nelle durissime prove. Ma la Religione, voi sapete, è rivelazione e la rivelazione è parola; perocchè la intelligenza divina non può comunicarsi alla umana se non col mezzo della parola, cioè con la più pura e la meno materiale delle forme analoghe alla condizione dell’uomo. E noi ascoltiamo questa celeste parola, la quale chiama beati i poveri, i perseguitati, coloro che piangono, assicurando loro il regno de’ cieli, e l’anima nostra si conforta in Dio suo Signore. Noi l’ascoltiamo questa parola in ogni circostanza, in ogni tempo, in ogni luogo, sul letto perfino dell’agonia, e il nostro cuore si apre alla speranza delle gioje future. Ma pel misero Sordomuto non è così. Esso non può, come noi, collegare il presente coll’avvenire, il visibile coll’invisibile, la natura colla grazia. Egli trovasi esposto a continue illusioni, privo d’ogni conforto, condannato a vivere in questo esiglio senza direzione, senza speranza, senza amore. Dispetto, odio, melanconia, abbandono, pianto, livore, sono quindi la sua porzione quaggiù. Egli vi è condannato da chi, potendo farlo religiosamente istruire, nol fa per indolenza o per mal inteso risparmio.
Ciò però non è tutto; anzi è questo veramente il minor male. Il peggio si è, o Dilettissimi, che, senza istruzione religiosa, è il Sordo-muto esposto del continuo al pericolo positivo di eterna condanna.
Ed in vero: per quanto ignorante delle cose di Dio esso voglia supporsi, porta anch’egli impressa nell’anima la legge naturale, quel lume cioè del Divin volto, che ci è guida a discernere il giusto dall’ingiusto, il vero dal falso, il bene dal male; può quindi anch’egli, essendo libero, mancare colpevolmente nella scelta, anzi pel maggior predominio che in lui hanno i sensi e pei maggiori pericoli ai quali trovasi esposto, molto più facilmente al male che al bene darà la preferenza, e allora? qual rimedio a tanto disordine? Ah, pur troppo! il Sordo-muto non istruito è l’uomo che cade e non può risorgere, che ha la coscienza del male ed è sprovvisto della forza per combatterlo con efficacia, che sente la punta del rimorso e non ha mezzo di liberarsene, che è figlio di Dio e ne diventa nemico, che pecca contro la legge e non redime il tempo coi Sacramenti.
Il Sacramento stesso della Penitenza a che mai gioverebbegli, se questo richiede nel penitente atti positivi e diretti, e tali atti che suppongono necessariamente una serie di fatti e d’idee soprannaturali, la cui conoscenza a quel misero è affatto straniera? Certo si è, V. F., che non potrebbe verun di voi ammettere al beneficio dell’assoluzione Sacramentale un Sordo-muto, del quale non avesse morale certezza che sappia ciò che dimanda e ne abbia le necessarie disposizioni. Ora, dal fin qui detto, può ella aversi questa morale certezza? Profondamente addolorati il diciamo: non può aversi per quei Sordo-muti che non furono istruiti religiosamente da chi ne conosce l’arte difficilissima.
Dopo tutto ciò chi a di voi, V. F. e D. F., che non vegga la necessità che hanno cotesti infelici di essere soccorsi? Anche nell’Evangelo sono tratti eloquentissimi a questo riguardo.
I lebbrosi, gli storpii, i languidi, i ciechi stessi conoscono la propria sventura e possono andare in cerca del divin Medico, o, se non altro, possono, quando Egli passa loro accanto, gridare: Gesù figliuol di Davidde, abbi pietà di noi. Niuno de’ Sordo-muti al contrario trova ajuto da sè stesso alla propria disgrazia, niuno da sè stesso trova la via per andare al Salvatore, epperò fa d’uopo che altri pensino per loro e a Lui  pietosamente li guidino.
Ma anche condotti a Gesù, essi non Lo conoscono, nè possono rivolgergli alcuna preghiera. Quindi è che G. C., mentre da tutti, che a Lui ricorrevano, chiedeva una supplica, una confessione della loro miseria, un atto di fede, mai niente di ciò richiese dai Sordo-muti, volendo tuttavia che per essi pregassero e ravvivassero la fede quelli, che a Lui li presentavano.
Ciò che merita inoltre la vostra attenzione si è, che tutti i Sordo-muti, guariti da Gesù Cristo, almeno quelli di cui si narra particolarmente la guarigione, erano anche posseduti dal demonio. Ah, questa facilità appunto in cui sono que’ miseri di cader sotto l’impero di satana, era quello che sul cuore di Gesù, sensibilissimo a tutte le umane sventure, faceva una più viva impressione! Vedetelo infatti, o Dilettissimi, mentre Gli vien presentato un cieco e muto. Egli ne compatisce la duplice disgrazia, ma prima dalla mutolezza che dalla cecità lo guarisce, come da più grave sciagura. Osservatelo di nuovo alla presenza di un altro sordo e muto dalla nascita. Come sopra la tomba del quatriduano Lazaro, leva Esso, in vedendolo, gli sguardi al cielo, e geme, e sospira, quasi vedesse d’un tratto in lui solo l’abisso dei mali gravissimi in cui precipitato era l’uomo.
Così grande poi è l’interesse e la pietà che pei Sordo-muti Egli dà a conoscere, ed usa nel guarirli sì tenera sollecitudine, da risvegliare sempre l’ammirazione delle turbe (Matth. XII, 23 – Luc. XI, 14) le quali, dopo di averlo proclamato singolare ed unico nell’operare cosifatti prodigi (Matth. IX, 33) e d’averlo a questi stessi prodigi riconosciuto pel Messia aspettato (Matth. XII, 23), non sanno meglio esprimere il loro entusiasmo e dire compendiosamente quanto lo credono buono, potente e grande, se non col ricordare e predicare quello che aveva fatto a pro’ de’  Sordo-muti: bene omnia fecit: et surdos fecit audire et mutos loqui (Matth. VII, 37).
Deh, quanto care e consolanti debbono scendere al cuore di chi si adopera, e molto più di chi dedica la sua vita al bene de’  Sordo-muti, questi tratti evangelici! Per chi altri specialmente, se non per costoro, avrà egli proferita la grande sentenza: quamdiu fecistis uni ex his fratribus meis minimis, mihi fecistis? (Matth. XXV, 40).
Gli è dietro sifatte considerazioni, V. F. e D. F., che Noi, desiderosi di provvedere per quanto Ci è possibile, al bene di tutte le anime alle Nostre cure affidate, abbiamo aperto da qualche tempo in questa Nostra Città un Istituto a pro delle Sordomute fanciulle, affidandone la direzione alle benemerite Figlie di S. Vincenzo de’ Paoli.
Ora spetta a voi massimamente, Venerabili Nostri Cooperatori, contribuire, con quanto avete di forze, al felice avviamento e progresso del medesimo. Noi confidiamo che anche in ciò avremo di che lodarci di voi, e tanto più lo speriamo, in quanto che l’opera, della quale si tratta, è una gloria, si può dire, tutta nostra.
Non furono difatto i Sacerdoti cattolici che primi si accinsero a questa penosa missione d’istruire nelle verità sovrannaturali i Sordo-muti? Non furono essi che i primi aprirono pubblici Istituti e ne divennero i più abili Istitutori, sacrificando a tal uopo le sostanze, l’ingegno, la vita? e non sono essi ancora che al presente ne vanno creando continuamente dei nuovi e che per tutto, colle esortazioni e colla parola, promuovono quest’opera alla religione, alla famiglia, alla società cotanto utile e salutare?
Alcuni moderni filantropi, ben vorrebbero rapire alla Chiesa anche questo nobilissimo suo vanto, ma indarno; chè la storia è là e ricorda, come non sia ancora sorto un asilo pei Sordo-muti, senza il concorso efficace del Clero; ricorda a mille a mille i Sacerdoti che nascosti fra umili pareti furono padri tenerissimi, istitutori zelanti, maestri ed evangelizzatori di quegli sventurati; ricorda le Congregazioni e gli Ordini Religiosi che sorsero, o si dedicarono alla loro istruzione; ricorda Vescovi e Cardinali senza numero che si fecero patrocinatori ed anche fondatori di asili per essi; ricorda finalmente le paterne sollecitudini dei Sommi Pontifici Leone XII, Gregorio XVI, Pio IX, e, per noi specialmente, ricorderà la singolare degnazione del regnante sommo Pontefice Leone XIII, il quale, non appena seppe come Noi avevamo aperto per le povere Sordo-mute l’anzidetto Istituto, volle concorrervi Egli stesso pel primo, col provvederlo di un posto a proprie spese. Che non dovremo adunque far noi, o Dilettissimi?
Costa certamente sacrifizii e fatiche il procurare al Sordo-muto la necessaria istruzione e molto più l’impartirla, ma oh, da quali e quante consolazioni, non sono elleno ricompensate! solo chi ne ha fatto esperimento può dirlo. Fate istruire i Sordo-muti, V. F. e D. F., e la Chiesa avrà in essi senza dubbio un popolo di ferventi cristiani, di fedeli adoratori di Dio. Questo è veramente quel terreno buono, in cui il seme della divina parola rende il cento per uno. Vedeste con qual bramosia chieggono essi ai loro educatori il pane dell’istruzione religiosa! con quali trasporti di giubilo e di viva riconoscenza li ringraziano d’averla ricevuta! E cosa che intenerisce fino alle lagrime.
Che dirvi poi dei beneficii che alla società, da tale istruzione, derivano? Diremo solo che non vi ha quasi ramo dello scibile umano cui non abbiano alcuni di essi illustrato colla celebrità del loro nome. Potremmo qui noverare Sordo-muti di tutte le nazioni, i quali si elevarono d’assai sulla comune degli uomini; e ne conta pure l’Italia in gran numero, e più ne conterebbe, se gl’istitutori fossero stati più incoraggiati dalla carità cittadina.
Anche per ciò Noi vorremmo che fra le molte utili e pie Istituzioni, onde va ricca la Città nostra, quella eziandio potesse annoverarsi dei poveri Sordo-muti; vorremmo che Piacenza non avesse più ad invidiare, per questo conto, tante altre città italiane e straniere, ove già i Sordo-muti d’ambo i sessi sono felicemente istruiti. Un pensiero gli è questo che Noi vagheggiamo da lungo tempo e che speriamo, se la Provvidenza Ci verrà in ajuto, di potere un giorno recare ad effetto.
Intanto però vogliate, o Carissimi, approfittarvi della propizia occasione che vi offe l’asilo per le Sordo-mute, facendo voti e dando opera nel medesimo tempo, affinchè sorga presto in mezzo a noi anche quello pei fanciulli colpiti della stessa sventura.
Non tutti, lo sappiamo, possono largheggiare, come tante e tante anime buone hanno fatto e vanno facendo altrove, ma niuno tuttavia può esimersene intieramente, perchè, dovendo ciascuno soccorrere ai Sordo-muti giusta sue forze, non da tutti si domanda che fondino di loro entrate Istituti all’uopo, come altri fondarono; o che vi spendano tutto il loro tempo, come altri vi spesero; o che vi consacrino la persona e la vita, come altri vi consacrarono. Felice chi trovasi in condizione di ciò fare! Basterà or col soccorso del consiglio, ora col sussidio della elemosina, ora coll’autorità della raccomandazione sostenere, animare, promuovere l’Istituto già aperto, e affrettare, nella stessa maniera, l’apertura del nuovo. Oh sì, Dilettissimi, sì! Vi stia a cuore, sopra ogni altra, quest’opera di cristiana e civile rigenerazione.
E’ una preghiera che rivolgiamo anzitutto a coloro che siedono in alto e dirigono le sorti del nostro paese, a coloro eziandio che sono a capo delle pubbliche Amministrazioni di Beneficenza e degli Istituti di Carità. Noi punto non dubitiamo del loro appoggio, perchè Ci è noto abbastanza quanto alto senno li guidi, e quanto amore li animi del pubblico bene. E chi potrebbe di tale appoggio rimproverarli?
Mentre per legge si vuole obbligatoria l’istruzione del popolo, affinchè la luce del vero si diffonda e penetri pur anco nella officina del povero e dell’artigiano; mentre tanto si esige per tutelare il diritto che ha ciascuno di godere di tutti que’ preziosi vantaggi, che sono procurati dalle condizioni sociali, come potrebbe esserne escluso il Sordo-muto? Non entra forse anch’egli nel novero degli uomini e dei cittadini? Non ha egli anzi maggior diritto alla compassione fraterna e alla sociale attenzione, appunto perchè la sventura lo ha più crudelmente colpito? No, nè la società può ricusargli il beneficio della istruzione, avendo la Provvidenza ispirato al genio dell’uomo i mezzi atti a dissiparne la ignoranza; nè deve ricusarglielo, avendo essa grave obbligo di render atti i suoi membri a cooperare al miglioramento comune. E’ debito dunque dei Municipii, delle Provincie e di chiunque presieda alla pubblica cosa, di procurare, con ogni premura, l’educazione del Sordo-muto, soccorrendolo, non con una sterile compassione, ma sì con amore operoso ed efficace, che valga a restituirgli i privilegi dell’uomo, a farlo entrare nel civile consorzio, a renderlo utile alla religione non meno che alla patria. Mentre stiamo scrivendo, una schiera eletta di educatori di quegl’infelici, convenuti da tutta Europa, trovansi appunto a tale scopo, radunati nella vicina Milano. Oh, benedica il Signore i loro studii e le loro fatiche, e voglia renderle ben presto feconde di soavi, copiosissimi frutti!
Una parola anche a voi, o ricchi e benestanti della Nostra Diocesi. La sorte tristissima dei Sordo-muti, che sono fra noi, è tutta, si può dire, nelle vostre mani. Da voi, in effetto, dipende la loro felicità temporale ed eterna, potendo voi coi mezzi, di cui vi ha forniti la Provvidenza, aprirne loro la via. E’ questo anzi uno dei vostri più rigorosi doveri. Se vostro dovere rigorosissimo infatti si è quello di sovvenire agl’infelici e bisognosi, quanto maggiore non dovrà dirsi il dovere che vi corre di sovvenire al Sordo-muto, che è la creatura sulla terra più bisognosa di conforto e di soccorso?
Ma Noi sappiamo di parlare ad anime bennate e sensibili, a cuori altamente generosi, ne’ quali religione e umanità si danno vicendevole amplesso. Crediamo quindi superfluo aggiungere altro. Solo ricorderemo, con s. Agostino, che se Dio ha fatto il povero per la salute dei ricchi, ha fatto i ricchi per il sollievo de’ poveri. Ricorderemo, con s. Ambrogio, che più il mondo vedrà i ricchi essere caritatevoli, tanto più addiveranno essi in faccia al mondo rispettabili e cari. Il povero (e Noi diremo il Sordo-muto) non avrà ad offrirvi in riconoscenza che le sue benedizioni, ma Dio medesimo s’impegnerà alla vostra ricompensa.
Un’ultima parola a Voi, o Venerabili Sacerdoti, Nostri carissimi Cooperatori nella vigna di Dio. Niuno di voi certamente lascierà venir su nella sua Parrocchia un fanciullo o una fanciulla, colpiti di mutolezza e sordità, senza tentare ogni mezzo di renderla, coll’istruzione religiosa, capace di ricevere i santi Sacramenti della Chiesa, perchè niuno di voi vorrà certo tradire il proprio ministero, nè rendersi in faccia alla Chiesa e a Dio colpevole della perdita di quell’anima, al suo zelo raccomandata. Non potete voi occuparvene direttamente? Potete però e dovete occuparvene indirettamente, finchè non siete moralmente sicuri della salvezza eterna di lei.
Cercate adunque di cotesti sgraziati nelle famiglie, dove spesso sono tenuti nascosti, e notificateli a questa Curia, valendovi del modulo qui annesso. Dichiarate ai genitori l’obbligo di coscienza che hanno di farli istruire. Fate loro conoscere l’esistenza del suddetto Istituto. Provocate coll’esempio, o, se non altro, colla voce i fedeli più agiati a coadjuvare colle loro limosine, un’opera cotanto meritoria. Abbiate presente quanto, riguardo ai Sordo-muti, abbiamo detto nella Nostra Sinodo (De Schol. Doctr. Christ. 15). Consideratevi insomma, quali siete, i destinati dalla divina Provvidenza a divenire, secondo la frase dei Libri Santi, lingua della loro mutolezza e orecchio della loro sordità.
Venerabili Fratelli, è questo un nuovo apostolato che il cielo vi presenta. Non avete con eroici patimenti ad affrontare tempestosi oceani, non a penetrare in barbare terre, non a versare il vostro sangue per cercare chi non conosce Gesù Cristo. Li abbiamo sventuratamente fra noi e per condurli a Gesù Cristo altro non si richiede che un po’ d’amore ardente e sincero di Gesù Cristo medesimo. Oh, allora non vi saranno difficoltà, per quanto si vogliano grandi, che ci sgomentino. Sapremo superarle, e opereremo anche noi quei prodigi di carità, che altri prima di noi operarono.
Tutti finalmente, V. F. e D. F., adoperiamo pei Sordo-muti quei pronti rimedii, quelle amorevoli sollecitudini che brameremmo per noi se, per somma sventura, ci trovassimo in simile condizione. Unicuique, sta scritto, rnandavit Deus de proximo suo. La salute spirituale del nostro prossimo fu da Dio raccomandata a ciascun fedele, non come un atto di lodevole pietà solamente, ma come un dovere di carità comandata. Il Sordo-muto adunque non è dalla Provvidenza abbandonato alla sua lagrimevole privazione. Essa lo colloca nelle braccia dei fedeli, lo commette alle loro viscere pietose, e, coprendolo del prezioso mantello della divina figliuolanza, dice a tutti noi: col provvedere che farete al religioso allevamento di quest’anima a me sì cara, voi mi dimostrerete la grandezza dell’amore che mi portate.
E quali altri motivi dolcissimi non ci spingono a farlo? Il sacro Battesimo, voi sapete, lo ci unì nel più stretto vincolo di comunanza che v’abbia in terra, perchè non dovrà rompersi neppur dopo il corso della vita terrena. Esso è figlio dello stesso Padre, di quel Padre nostro che è nei cieli: esso è fratello nostro, perchè membro vivente della stessa famiglia; anzi in questa famiglia esso occupa un posto di predilezione e di onore, quello che è proprio degl’infelici, in particolar modo raccomandati dal Divin Redentore.
Suvvia dunque, o Carissimi, siano le cure più fiorite spese intorno a lui, perchè egli più facilmente apprenda a conoscere d’onde venne, ove dimori, dove vada; con lui si largheggi d’ogni dimostrazione d’amore, perchè il suo stato s’allevii, anzi si ingemmi di tutte le gioje che può diffondere la carità. In breve, d’infelice che era si renda felice, senza attenderne guiderdone o compenso di sorta. guiderdone e compenso di sì delicato amore sarà solo quel Dio che è carità per essenza, quel Dio il quale lasciò scritto nel santo Vangelo: beati i misericordiosi, perchè essi troveranno misericordia: beati misericordes, quoniam ipsi misericordiam consequentur (Matth. V, 7).
La grazia del Signor nostro Gesù Cristo e la carità di Dio e la partecipazione dello Spirito Santo sia con tutti voi (2 Ad Corinth. XIII, 13).
Vi benediciamo, Fratelli e Figli carissimi, con tutta l’effusione del cuore nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo.

Piacenza dal Nostro palazzo Vescovile 8 Settembre 1880.

† GIOVANNI BATTISTA VESCOVO

Fonte: Scalabrini.org


 

IL 9 NOVEMBRE 1997 PROCLAMATO BEATO SCALABRINI: LA RISPOSTA CRISTIANA di Beppe Del Colle
Fonte: Famiglia Cristiana

Padre degli emigranti ma anche apostolo della carità e del catechismo, prima da sacerdote e poi da vescovo, seppe trovare soluzioni concrete e profondamente ispirate al Vangelo ai problemi del suo tempo, soprattutto a quelli dei poveri. E scosse la Chiesa esortandola a «uscire dal tempio».
Indiscutibilmente: padre degli emigranti. Però anche (altrettanto indiscutibilmente): apostolo del catechismo e della carità; vescovo infaticabile; riformatore del clero; consigliere di tre Papi; amico di santi e beati come don Bosco, madre Cabrini, don Orione, don Guanella; oratore seducente, capace di tenere 340 discorsi in 100 giorni; brillante scrittore e polemista, autore di 60 lettere pastorali e di dirompenti opuscoli di carattere sociale (un quotidiano lo ha addirittura definito in questi giorni «precursore della moderna sociologia»).

E, ancora, promotore dell’iniziativa politica dei cattolici e acuto mediatore dei conflitti nella Chiesa italiana al tempo della Questione romana (tomisti contro rosminiani, intransigenti contro conciliatoristi). Come non bastasse, suscitatore di iniziative a favore delle mondariso, dei sordomuti, dei terremotati, degli operai, dei carcerati; pronto a vendere anche la camicia – letteralmente, dovettero chiudergli a chiave l’armadio – pur di aiutare le vittime di una carestia, comprese, in gran segreto, le famiglie dei nobili decaduti; decorato di medaglia al valor civile per essersi prodigato di persona nella cura dei colerosi…

Il 9 novembre quest’uomo ben difficile da chiudere in una biografia – Giovanni Battista Scalabrini – viene proclamato beato in San Pietro. Il Decreto con cui il 16 marzo del 1986 la Congregazione per le cause dei santi riconobbe l’eroicità delle sue virtù così riassume l’origine religiosa della sua opera: «La sua spiritualità consistette nel voler riprodurre in sé l’immagine di Cristo (…) secondo il principio teologico di san Paolo: “Sono crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20)».

Questo va detto subito, per evitare che passi l’immagine di uno Scalabrini semplice per quanto efficientissimo filantropo, figlio naturale di un tempo in cui la filantropia era l’etichetta, sia pur nobile, con cui il positivismo, il socialismo, l’idea del Progresso incontenibile dell’Uomo si piegavano sulla sorte dei poveri, della classe operaia, dei contadini vittime delle gigantesche trasformazioni sociali, a cui tutti costoro cercavano di sfuggire lasciando l’Europa per le Americhe.

Scalabrini fu la risposta intimamente, totalmente cristiana ai mali del suo tempo. Senza l’immedesimazione nel Cristo crocifisso le sue opere e i suoi giorni sarebbero del tutto inspiegabili, poiché davvero egli sembra aver vissuto molte vite in una. Nato l’8 luglio 1839 a Fino Mornasco, sulla strada fra Milano e Como, terzo di otto figli di una coppia di negozianti di vini, frequentò il ginnasio-liceo Volta di Como e a diciotto anni sentì la vocazione al sacerdozio. Entrò nel seminario minore di Sant’Abbondio e vi divenne facilmente un leader, negli studi come nelle amicizie. Ordinato sacerdote il 30 maggio 1863, chiese al vescovo Marzorati di poter entrare nei missionari del Pime, ma il presule gli rispose: «Le vostre Indie sono l’Italia», e lo nominò vicerettore (e quattro anni più tardi rettore) del seminario.

Il 12 maggio 1870 (l’anno della “presa di Roma”) don Scalabrini viene nominato parroco di San Bartolomeo in Como e comincia per lui la grande stagione delle opere, spirituali e materiali. Si dedica innanzitutto alla diffusione della Parola di Dio dal pulpito e con la catechesi dei bambini. Fonda un asilo, che affida alla sorella Luisa (rimasta vedova), e un oratorio per i ragazzi; compone un Piccolo catechismo che gli vale l’invito da parte del vescovo a stendere un «progetto per l’impianto delle scuole della Dottrina cristiana nella diocesi di Como». Diventa popolare fra i parrocchiani perché gira per il quartiere operaio, va a conoscere direttamente la loro vita di tessitori di seta, soffre con loro le perdite del lavoro nei tempi di crisi.

Nello stesso tempo studia la vita della Chiesa, medita sul Concilio Vaticano interrotto dalla “usurpazione” del papato da parte del Regno d’Italia, e il vescovo gli chiede nel 1872 di tenere undici conferenze nel Duomo comasco sui risultati del Concilio che aveva appena definito il dogma dell’infallibilità. La fama si sparge, le conferenze vengono stampate l’anno dopo, una copia arriva sullo scrittoio di Pio IX, contemporaneamente a due “raccomandazioni”: don Bosco e il vescovo di Pavia, Parocchi, suggeriscono al Papa di nominare quel giovane prete vescovo di Piacenza.

È così che a 36 anni Giovanni Battista Scalabrini si vede affidare un compito al quale è preparato. Lo si capisce dalla prima lettera pastorale, nella quale dichiara il suo programma: «Quanto a me, debitore a tutti, secondo le mie forze, tutti abbraccerò col mio ministero facendomi servo di tutti per l’evangelio, e inviato in prima ai poveri e ai più infelici che traggono miseramente la vita nella desolazione, soffrirò con essi, dando l’opera soprattutto a sovvenire ed evangelizzare i poveri». La diocesi conta 365 parrocchie e il nuovo vescovo comincia a visitarle tutte, sull’esempio di san Carlo Borromeo. Lo farà ben cinque volte in trent’anni, fino alla vigilia della morte. Dal punto di vista religioso, si rende conto che le cose non vanno bene, né fra i preti, né fra i laici. Per i primi, aggiorna il corso degli studi, detta regole più severe per la selezione dei seminaristi, reintroduce l’obbligo degli esercizi spirituali annuali e gli incontri periodici sulla morale. Indìce fra il ’79 e il ’99 tre Sinodi diocesani (sulla riforma della vita diocesana, la catechesi e la predicazione, l’Eucaristia).

Per i laici organizza una vera e propria rivoluzione nel metodo e negli strumenti della catechesi. Chiede che in ogni parrocchia nasca una Compagnia della Dottrina cristiana, pubblica nel 1876 la prima rivista catechistica italiana (il Catechista cattolico) e nel 1877 il volume Il catechismo cattolico. Considerazioni, che riceve l’elogio del nuovo Papa, Leone XIII. Nel 1889 convoca a Piacenza il primo Congresso catechistico nazionale, con l’adesione di 10 cardinali, 25 arcivescovi e 84 vescovi, fra i quali Giuseppe Sarto, futuro Pio X.

Ma dove le cose vanno decisamente male è sul piano sociale. Visitando le sue parrocchie, che si trovano in maggioranza sulle montagne dell’Appennino, il vescovo Scalabrini scopre che l’undici per cento della popolazione è emigrato, soprattutto nelle Americhe. Negli ultimi decenni dell’Ottocento l’Italia unita è un Paese in preda a una gravissima crisi produttiva. Il Governo non bada che all’equilibrio del bilancio e da un lato è ben contento che la gente senza lavoro emigri, dal l’altro non fa nulla per migliorare la condizione di quanti se ne vanno, per non esasperare i proprietari terrieri i quali nell’emigrazione non sanno vedere nient’altro che la fuga di braccia.

Scalabrini si batte perché la Chiesa scenda sul terreno sociale e scrive ai suoi preti: «Un cattolicesimo speculativo e neutrale, mentre in seno alla società si agitano e si dibattono con calore le più vitali questioni, è un assurdo, una specie di tradimento. Ai nostri giorni è quasi impossibile ricondurre la classe operaia alla Chiesa, se non manteniamo con essa una relazione continua fuori della Chiesa. Dobbiamo uscire dal tempio…».

Allo spirare del secolo, dopo le tragiche giornate del 1898 a Milano e un po’ dappertutto, pubblica Il Socialismo e l’azione del clero, in cui polemizza lucidamente con le teorie di sinistra, a cominciare dal marxismo che mostra di conoscere bene, ma dichiara che bisogna «combattere il socialismo con un altro socialismo», una grande apertura della Chiesa sul piano sociale, secondo le indicazioni della Rerum novarum di Leone XIII.

Un giorno, alla stazione di Milano, assiste alla partenza di alcune centinaia di emigranti. Ne rimane sconvolto. Conosce i termini del problema: in un opuscolo pubblicato nel 1887 con il titolo L’emigrazione italiana in America. Osservazioni, pubblica i dati governativi da cui risulta che negli ultimi undici anni sono partiti dall’Italia un milione e mezzo di persone. L’emigrazione non è, in sé, un male. Scalabrini la situa in un’ottica biblica, la vede come una parte del disegno di Dio volto a creare sulla Terra una sola, grande famiglia umana. Ma non si inganna sulla realtà: denuncia le condizioni disumane in cui si svolge, indica le pesanti responsabilità dei «sensali di carne umana», nuovi schiavisti che la legge considera «agenti di emigrazione» e non ostacola, mentre, secondo il vescovo, lo Stato dovrebbe tutelare «la libertà di emigrare, non di far emigrare». Riesce infine, nel 1901, a ottenere una legge sull’emigrazione che corrisponde ai suoi desideri.

Sul piano religioso, egli osserva quanto facilmente e quanto presto, non per colpa loro, gli emigrati perdano ogni contatto con la Chiesa. Questa preoccupazione diventa in lui assillante e angosciosa. Ma non lo paralizza. Come è nella sua natura, Scalabrini reagisce con le opere: nel 1887 dà vita alla Congregazione dei Missionari di San Carlo (poi chiamati “scalabriniani”) composta di sacerdoti impegnati con un giuramento al servizio degli emigranti; negli anni successivi, mentre la Congregazione cresce fra molte difficoltà negli Stati Uniti e in Brasile, egli chiederà e otterrà dalla Santa Sede per i suoi preti una consacrazione religiosa definitiva, mediante i voti perpetui.

Nell’89 crea la “Società San Raffaele”, composta prevalentemente di laici, per l’assistenza agli emigranti nei porti di partenza e di arrivo; e nel ’95 fonda il ramo femminile della Congregazione, della cui prima superiora generale, madre Assunta Marchetti, è stata introdotta la causa di beatificazione. Nel frattempo gira in lungo e in largo l’Italia per tenere conferenze, suscitare energie. Nel 1901 visita i suoi missionari negli Stati Uniti, sparsi ormai in decine di case, e si fa ricevere dal presidente americano Theodore Roosevelt; tre anni dopo compie un viaggio analogo in Brasile.

Quando rientra in Italia è stremato dalla stanchezza ( «sono stanco fino a morirne», dirà a un amico). Nonostante questo propone con un “memoriale” alla Santa Sede il progetto di una Commissione centrale per gli emigrati cattolici non solo italiani, e prepara una sesta visita pastorale alla diocesi.

Non ci riuscirà. Muore il 1° giugno del 1905, giovedì dell’Ascensione di nostro Signore. Nell’estrema agonia lo sentiranno gridare: «I miei preti, dove sono i miei preti? Lasciateli entrare».

nw175 (2007)


Newsletter della Storia dei Sordi n.175 del 2 febbraio 2007

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