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Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della disciplina in materia di diritto al lavoro delle persone disabili

Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della disciplina in materia di diritto al lavoro delle persone disabili.
1. Occupabilità e occupazione della persona con disabilità.
E’ indubbio che il lavoro, pur con i suoi ritmi ed i suoi impegni, assume un ruolo fondamentale nella vita di ogni persona umana, non solo in quanto fonte di un reddito fondamentale per vivere. Il lavoro è occasione di scambio di esperienze e di condivisione umana attraverso la costruzione di una rete di rapporti interpersonali; banco di prova e strumento di confronto, anche con se stessi, per raggiungere obiettivi e risultati, per realizzarsi professionalmente.
Si tratta di una “chiave di accesso alla vita attiva”, alla partecipazione sociale, che purtroppo non è nelle mani di tutti.
L’ingresso nel mercato del lavoro oggi è sempre più condizionato da un buon livello di formazione, dal possesso di competenze specialistiche, ma anche dalla capacità di adattarle e trasformarle in relazione a mansioni diverse che, oggi più di ieri, si è chiamati a svolgere a fronte di un’estrema mobilità.
Si tratta di condizioni che spesso mancano ai più deboli, come le persone con disabilità. O che quando ci sono rischiano, a causa di una valutazione aprioristica, di non essere prese in considerazione.
La legge 12 marzo 1999, n. 68, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”è la risultante di un lungo processo di elaborazione in sede parlamentare, finalizzato al superamento della precedente disciplina normativa in materia, dettata dalla L. 2 aprile 1968, n. 482, e alla realizzazione compiuta del riconoscimento della dignità e del valore sociale della persona disabile attraverso un suo effettivo inserimento nel mercato del lavoro.
Parziale estensione sul piano giuslavoristico di quella filosofia finalmente inclusiva abbracciata dal legislatore italiano con l’approvazione della L. 5 febbraio 1992, n. 104 (“Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”), la L. n. 68/99 riflette un profondo mutamento di prospettiva nella individuazione di soluzioni efficaci al problema dell’impiego lavorativo dei disabili, pur mantenendo lo strumento dell’avviamento numerico fra le possibilità di inserimento della persona non normodotata nel mondo del lavoro.
Il legislatore vuole abbandonare la modalità del rigido inserimento “obbligato”, di cui alla L. n. 482/68, e, ponendo l’accento, più che sulla menomazione fisica, psichica o sensoriale quale causa dell’invalidità, sulla valorizzazione delle capacità lavorative residue (globali e potenziali), delinea la funzione del c.d. collocamento “mirato”.
Alla base di questa scelta c’è la consapevolezza che le difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro del disabile trovano principalmente origine nella incapacità, supposta o reale, di svolgere mansioni incidentalmente assegnate.
L’obiettivo di un accertamento non circoscritto al vaglio della minorazione non si limita a temperare una situazione di asimmetria informativa nel rapporto contrattuale per colmare il vuoto di informazioni in capo al datore di lavoro sulle capacità della persona disabile, e a lasciare così alle sole leggi di mercato la possibilità per il lavoratore disabile di trovare e svolgere un’attività lavorativa, giustamente remunerata. La valutazione delle residue capacità della persona con disabiltà è finalizzata alla definizione di un percorso professionale che permetta un inserimento stabile e proficuo nel posto di lavoro, da individuarsi in considerazione delle specificità della persona (cfr. art. 2, L. n. 68/99).
Il legislatore non manca di indicare gli strumenti per la concretizzazione dell’inserimento mirato: “analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e relazione” (art. 2, L. n. 68/99).
La pluralità degli strumenti, supportata da un sistema di gestione c.d. “a rete” appena tratteggiato, fa intravedere le potenzialità connesse all’operare sinergico – e secondo metodi e logiche condivise – dei differenti attori sociali nel garantire l’effettività del diritto al lavoro delle persone disabili.
A superare le resistenze dei più scettici sulla possibilità che una persona con disabilità possa trovare un’occupazione che non si presenti nella forma surrogata dell’impiego protetto in alcuni centri socio-assistenziali, si riferisce l’esempio di quelle buone prassi sperimentate in alcune realtà del Paese che, attraverso una  gestione concertata di tutte le fasi dell’inserimento lavorativo, hanno di nuovo dato speranza alla possibilità di occupazione delle persone con disabilità.
L’approvazione della normativa sul sistema integrato di interventi e servizi sociali di cui alla L. 8 novembre 2000, n. 328, nel contesto di un progressivo decentramento di funzioni e compiti in materia di politiche attive del lavoro e di servizi per l’impiego sembra poter dare respiro ad un’interpretazione della legge in senso meno burocratico.
A più di cinque anni dall’entrata in vigore della L. n. 68/99, in un contesto storico, culturale, sociale ed anche economico diverso, si impone una riflessione non solo per verificare quali sono stati i risultati fin qui conseguiti, ma anche per esplorare quelli che possono essere i possibili ambiti di intervento futuri.
Negli ultimi anni, complice il potenziamento anche in ambito comunitario delle iniziative a favore delle persone con disabilità, il processo di integrazione sociale sembra aver registrato notevoli progressi in termini di risultati raggiunti.
Da più parti si segnala essersi imposta quella “cultura della normalità” che, pur non negando l’esistenza di differenze, considera più che legittima la richiesta di partecipazione sociale anche attraverso lo svolgimento di un’attività lavorativa.
Da questo punto di vista la L. n. 68/99, puntando sul concetto innovativo di “collocamento mirato”, ha promosso una serie di comportamenti ed azioni finalizzati a precise assunzioni di responsabilità la cui efficacia però è da dimostrare.
Si stima che oggi in Italia siano circa 500.000 le persone con disabilità iscritte allo specifico elenco in cerca di occupazione.
I risultati degli inserimenti lavorativi di persone con disabilità nelle aziende, sia in termini numerici sia in termini di qualità e continuità, non sono del tutto soddisfacenti e, sicuramente, non omogenei sul territorio nazionale.
L’analisi sociologica ci riferisce che ancora troppo spesso le persone con disabilità sono condizionate da esperienze negative vissute in precedenza e si dimostrano restie ad affrontare un percorso formativo e professionale che può rivelarsi anche lungo per la ricerca del lavoro più adatto e soddisfacente.
Nel mondo delle imprese l’inserimento di una persona con disabilità viene considerato soprattutto come un obbligo normativo ed il lavoratore come una persona da assistere e da collocare in situazioni lavorative dove possa nuocere il meno possibile, piuttosto che una risorsa da valorizzare.
Se dunque il tema della occupabilità della persona con disabilità sembra aver tendenzialmente abbandonato le resistenze culturali legate alla possibilità di accesso al lavoro, si tratta ora di vincere quelle resistenze che, pur sembrando affondare le proprie radici in ambito culturale, appaiono più di tipo c.d. “opportunistico-economico” in senso lato e riguardano, pur con implicazioni e motivazioni diverse, tanto il lavoratore, quanto l’impresa.
Per quanto le politiche di sostegno sociale siano insufficienti e la persona con disabilità, come accade in molti Paesi economicamente sviluppati, rischia di cadere in uno stato di povertà, non è da escludere che la scelta del “non impegno nella ricerca del lavoro” sia condizionata da una sorta di “costo-opportunità”. In sostanza, spesso l’utilità derivante dalla prestazione di un’attività lavorativa, in considerazione dei disagi che la persona si trova ad affrontare non è superiore a quella che ne conseguirebbe pur a fronte di una integrazione del reddito.
D’altro lato, spesso la maggioranza dei datori di lavoro ritengono che l’inserimento lavorativo di persone con disabilità in azienda comporti dispendiosi adeguamenti del posto di lavoro, complessi problemi di organizzazione, rallentamento dei ritmi lavorativi, diminuzione della produzione, problemi di integrazione con i colleghi, necessità di prevedere risorse destinate a seguire l’inserimento e così via.
Eppure la L. n. 68/99 non manca di strumenti normativi per favorire un graduale inserimento della persona in un ambiente di lavoro, frutto di una scelta condivisa.
Si prevede un sistema di incentivi di tipo economico finalizzato all’assunzione delle persone con disabilità più gravi, alla possibilità di garantire percorsi graduali di inserimento lavorativo della persona con disabilità e all’adeguamento del posto di lavoro.
A fronte di tanti apprezzamenti, ma anche delle permanenti criticità qui accennate, pur nella giustezza della filosofia di fondo della legge, occorre chiedersi, quindi, se le azioni a sostegno dell’inserimento lavorativo, come quelle disegnate dalla L. n. 68/99, siano funzionali al superamento delle resistenze segnalate.
Dalle analisi sull’efficacia normativa di alcune disposizioni elaborate in autorevoli sedi internazionali, che verranno di seguito esposte, sembra che anche la leva di tipo economico non possa che essere utilizzata per brevi periodi, fin tanto che gli interventi predisposti di lungo periodo possano “andare a regime”.
Sarebbe difficile, poi, non trascurare il dato organizzativo.
Le strutture preposte o coinvolte nell’applicazione della normativa incontrano difficoltà di vario genere nell’assumere il ruolo affidato loro e nell’integrare le proprie rispettive funzioni. Quest’ultimo obiettivo non si può sostanziare solo nell’ assicurare il rispetto degli adempimenti amministrativi, quanto nell’organizzare e gestire servizi specializzati.
Da un’indagine compiuta recentemente dall’Isfol, risulta che in circa il 40% delle province non è stato strutturato un servizio specifico per il collocamento mirato.
La stessa indagine, peraltro, non manca di evidenziare quelle realtà in cui l’adozione di buone prassi ha portato a proficui inserimenti lavorativi anche delle persone con disabilità più difficili (come il caso dei disabili psichici).
I servizi per l’impiego si trovano in una posizione cruciale per la realizzazione di interventi di politica attiva del lavoro volti a trasformare un’interpretazione sostanzialmente impositiva della normativa nell’implementazione di un sistema dinamico di servizi alle persone e alle impreseche massimizzi l’occupabilità delle persone con disabilità e la convenienza per l’impresa, realizzando un compromesso tra interessi concettualmente e storicamente distinti.
Rispetto alle strutture coinvolte nel processo di inserimento lavorativo (istruzione, formazione professionale, salute, assistenza, cooperazione sociale), alle persone con disabilità, alle imprese, essi sono chiamate ad assumere un ruolo di riferimento, potendo oggi finalmente ragionare anche su come consolidare i risultati raggiunti ed eliminare quegli ostacoli che si frappongono fra la persona con disabilità ed il mantenimento di un posto di lavoro faticosamente conquistato.
2. Il quadro normativo internazionale.
2.1. La promozione dei diritti delle persone con disabilità: fra affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo e protezione sociale.
In molte realtà nazionali le persone con disabilità restano escluse dalla società e, di fatto, private dei loro diritti fondamentali.
La discriminazione nei confronti dei disabili può assumere varie forme: dalla negazione di opportunità educative e formative, all’imposizione dell’isolamento nella vita civile, anche attraverso il permanere di barriere fisiche e sociali.
Quando questi o altri comportamenti limitativi del libero esplicarsi delle potenzialità della persona umana si verificano in ambiti cruciali della vita – quali, ad esempio, il lavoro, l’educazione, la possibilità di vivere autonomamente, di muoversi, di accedere ai pubblici servizi o di godere di iniziative culturali – le conseguenze sono dirompenti.
L’esclusione sociale o più semplicemente le differenze, le restrizioni, le preferenze o il rifiuto di “ragionevoli aggiustamenti” annullano o, quanto meno, rendono impari il godimento effettivo di diritti formalmente riconosciuti.
La negazione o l’impossibilità di beneficiare di uno solo dei diritti fondamentali della persona umana rischia di compromettere il godimento di altri: ne consegue che la riflessione su come garantire il diritto al lavoro delle persone con disabilità si interseca con la verifica dell’effettiva fruizione di altri diritti individuali.
L’analisi della normativa internazionale sul lavoro delle persone con disabilità, pertanto, non può prescindere dal considerare il complesso quadro normativo d’insieme in cui va a collocarsi.
Il tema della disabilità è stato affrontato in più occasioni dagli organismi internazionali.
Anche attraverso le differenti agenzie di competenza[1], l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha indicato alla comunità internazionale principi da garantire, politiche da intraprendere, strumenti progressivamente più rispondenti a bisogni sociali variabili, non sempre condizionati dalla situazione economica mondiale contingente, quanto da un approccio socio-culturale che ha tentato in più di mezzo secolo di incidere sulle scelte nazionali, prima, macro-regionali, poi.
Ai fini della presente indagine conoscitiva, si presentano sinteticamente gli atti normativi e le iniziative intraprese in ambito internazionale, che meglio possono mostrare le indicazioni e gli strumenti a sostegno dell’integrazione sociale della persona con disabilità.
In una prima fase, l’affermazione dei diritti fondamentali della persona disabile è  passata principalmente attraverso il principio di universalità e di uguaglianza e,  indirettamente, attraverso il principio di non discriminazione. Tale principio è stato enunciato all’articolo 2, primo comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948) nei seguenti termini: “Ad ogni individuo spettano i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.
Partendo da tale base, negli anni Quaranta e Cinquanta, la preoccupazione principale delle Nazioni Unite in tema di disabilità, è stata quella di fornire assistenza agli Stati per l’allestimento di servizi sociali in grado di assicurare la prevenzione e la riabilitazione, a fronte di politiche e legislazioni nazionali fondate in gran parte sulla presunta incapacità di fatto della persona disabile di avvalersi di alcuni diritti. Questa impostazione si riflette anche nella Convenzione ONU del 1966 sui Diritti economici, sociali e culturali[2] e nella contemporanea Convenzione sui Diritti civili e politici[3]: in entrambi i documenti non si riscontra infatti  la preoccupazione di formulare principi che muovano dalla specificità delle persone con disabilità.
Solo all’inizio degli anni ’70 si afferma una diversa sensibilità, e, con essa, la  consapevolezza che senza l’indicazione di diritti individuali di chiara interpretazione, oltre che di effettiva fruizione, le barriere culturali e sociali che conseguono a pratiche discriminatorie giustificate da consuetudini sociali sono destinate a restare, perpetrando così la condizione di marginalità sociale delle persone portatrici di handicap .
Sulla scorta di tale intuizione, nel 1971 l’Assemblea Generale fa propria la “Dichiarazione sui diritti delle persone mentalmente ritardate”, dove per la prima volta, alla dichiarazione espressa che determinati diritti si applicano alle persone con disabilità intellettiva, come a persone prive di questo tipo di disabilità, si affiancano specifici diritti in relazione ai bisogni in campo medico, educativo e sociale.
Nel 1975 segue la Dichiarazione dei diritti delle persone disabili, che non solo proclama parità di diritti civili e politici delle persone con disabilità, ma indica degli standard di trattamento e di accesso ai servizi che possano aiutare a sviluppare le capacità ed accelerare il processo di integrazione sociale.
Un anno dopo l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dichiara il 1981 Anno Internazionale delle Persone Disabili e lancia la sfida di un piano di azione ad ogni livello – nazionale, macro-regionale, internazionale – che rilanci in concreto pari opportunità, riabilitazione e prevenzione delle disabilità.
Il risultato più importante delle iniziative disposte in occasione dell’Anno Internazionale delle Persone Disabili[4] è la definizione del Programma mondiale di azione per le persone con disabilità (World Programme of Action concerning Disabled People), adottato dall’Assemblea Generale il 3 dicembre 1982[5]. Nell’ambito dell’individuazione di tre aree distinte di intervento, ossia prevenzione, riabilitazione e garanzia di uguali opportunità, il Programma prospetta un approccio diverso da quello seguito in precedenza dalle Nazioni Unite: i problemi inerenti la condizione di persona disabile, infatti, non vengono più visti isolatamente l’uno dall’altro e si afferma la consapevolezza che la loro soluzione dipende dalla ricognizione dei diritti e dei bisogni delle persone disabili, dalla volontà politica di risolvere questi problemi, ma soprattutto dalla formulazione e dalla implementazione di strategie effettive ed integrate.
Anche nella messa a punto di specifiche iniziative ed attività, si trasforma la metodologia di gestione: a livello internazionale, si richiede ai singoli governi di cooperare l’un l’altro, con le Nazioni Unite e con le organizzazioni non governative.
Per consentire ai governi e alle organizzazioni di rendere operanti le azioni previste dal Programma, l’Assemblea Generale proclama il periodo 1983-1992 Decennio delle Nazioni Unite per le persone disabili[6].
In questo contesto basti riferire, fra i risultati più importanti, il consolidamento della cooperazione inter-istituzionale e fra istituzioni e attori sociali, che porta ad affiancare ai più collaudati contenitori normativi della dichiarazione, della convenzione e della raccomandazione, lo strumento (non solo formalmente diverso) delle linee guida operative[7].
La finalità è quella di mettere a punto un documento maggiormente fruibile e con indicazioni di tipo operativo, frutto di una dialettica condivisa, destinato ai legislatori nazionali, ma anche agli attori sociali, oltre che agli operatori di settore.
Ciò appare chiaro nel 1993, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva le Norme standard per la equiparazione delle opportunità per le persone con disabilità[8], quale strumento di politica legislativa e documento base per una cooperazione tecnica ed economica fra Stati membri, Nazioni Unite ed organizzazioni non governative[9]: le 22 regole che costituiscono tale atto sono ripartite in tre capitoli – precondizioni per un’uguale partecipazione, aree-obiettivo per un’uguale partecipazione, misure di implementazione – e coprono ogni aspetto della vita della persona con disabilità. Come si legge nel paragrafo introduttivo(“Purpose and content of the Standard Rules on the Equalization of Opportunities for Persons with Disabilities”), tali regole, ancorché non cogenti, “possono diventare regole internazionali consuetudinarie, quando sono applicate da un grande numero di Stati con l’intenzione di rispettare la norma nell’ordinamento internazionale. Esse implicano un forte impegno morale e politico sul comportamento degli Stati perché prendano misure attive per l’equiparazione di opportunità per le persone con disabilità. Sono indicati i principi importanti per la responsabilità, l’azione e la cooperazione. Sono indicate le aree di importanza decisiva per la qualità della vita e per il raggiungimento della piena partecipazione ed uguaglianza. Le Regole offrono uno strumento di policy-making e di azione per le persone con disabilità e le loro organizzazioni”.
2.2. Disabilità e lavoro nei principali atti normativi dell’International Labour Organization.
Nel contesto appena descritto si colloca l’attività dell’International Labour Organization (di seguito ILO) [10].
Nella Dichiarazione sugli scopi, sugli obiettivie sui principi che devono ispirare gli Stati membri, la Conferenza generale dell’Organizzazione il 10 maggio 1944 afferma che: “tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla razza, dalla religione e dal sesso cui appartengono hanno il diritto di tendere al loro progresso materiale ed al loro sviluppo spirituale in condizioni di libertà, di dignità, di sicurezza economica e con possibilità eguale” (art. II, primo comma, lett. a))[11].
Solo due giorni più tardi, con la raccomandazione n. 71/1944, l’ILO non trascura di indicare, fra i principi generali che devono guidare la transizione da un periodo di conflitto bellico ad un periodo di pace, la necessità di assicurare ai lavoratori disabili, a prescindere dall’origine della disabilità, piena opportunità di riadattamento, guida professionale specializzata, formazione e un lavoro (cfr. nei Principi generali, l’art. X): gli Stati membri sono pertanto invitati a individuare politiche formative e di impiego dei lavoratori disabili che tengano conto delle capacità lavorative della persona con disabilità; a creare una più stretta collaborazione fra servizi medici e di riabilitazione professionale; a garantire ai disabili più gravi la possibilità di un posto di lavoro che si reputi possa essere occupato anche da loro; ad assicurare, dove possibile, delle quote (si veda il Titolo “Methods of Application”, Capo X “Employment of Disabled Workers”, punti 39-44).
Significativa è anche l’affermazione del principio di collaborazione che dovrebbe sussistere fra istituzioni ed organizzazioni sindacali, nel tentativo di superare quelle forme di discriminazione contro le persone disabili che non derivano dalle loro abilità o dalla loro produttività.
Negli anni successivi, tuttavia, sembra prevalere l’idea che il disabile debba essere considerato essenzialmente un soggetto debole, incapace di trovare una collocazione nel mercato del lavoro, e pertanto destinatario di una serie di politiche sociali che si propongono essenzialmente di migliorarne le condizioni di vita, trascurando la partecipazione attiva della persona nella soddisfazione dei suoi bisogni.
Di tale impostazione risentono sia la convenzione n. 100 del giugno 1951 (che codifica il principio di uguaglianza fra uomo e donna per un lavoro di valore uguale, senza alcun riferimento specifico alla condizione della disabilità) sia la convenzione n. 111 del giugno 1958 sulla discriminazione in materia di impiego e nelle professioni, che ancora non riflette la preoccupazione di includere  espressamente la disabilità quale causa di discriminazione. Solo la raccomandazione n. 99 (22 giugno 1955) sul riadattamento professionale della persona con disabilità, contiene alcune indicazioni programmatiche, rivolte agli Stati membri, sulla realizzazione dell’integrazione e il mantenimento della persona disabile nel mercato del lavoro, da attuare attraverso un continuo e coordinato processo di riadattamento professionale che coinvolga differenti servizi, quali l’orientamento, la formazione professionale e un collocamento selettivo.
Anche  la convenzione n. 118, in materia di parità di trattamento nel campo della sicurezza sociale[12], adottata il 26 giugno 1962, conferma l’approccio al tema della disabilità in termini essenzialmente assistenzialistici: il segno di un mutamento di prospettiva arriva, venti anni più tardi, con la convenzione n. 159 del 1 giugno 1983[13], adottata sulla spinta delle iniziative intraprese dopo la proclamazione del già ricordato Anno Internazionale delle Persone Disabili, e specificatamente dedicata al reinserimento e all’occupazione delle persone con disabilità.
Riprendendo in parte gli orientamenti programmatici suggeriti nella raccomandazione n. 71/1944 e nella raccomandazione n. 99/1955, la convenzione delinea il diritto della persona disabile (definita, ai sensi dell’art. 1, “qualsiasi persona le cui prospettive di reperire e di conservare un impiego adeguato, nonché di progredire professionalmente, sono notevolmente ridotte a causa di un handicap fisico o mentale debitamente riconosciuto”) non solo ad un’occupazione, ma anche a tutta quella serie di servizi strumentali alla collocazione sul mercato del lavoro che ciascuno Stato membro deve approntare.
Nella consapevolezza che la pur necessaria affermazione del diritto di uguaglianza e di parità di trattamento (art. 4[14]; art. 8) non è più sufficiente, si impegna quindi ogni Stato a realizzare e rivedere periodicamente la propria politica nazionale per il reinserimento professionale e l’occupazione delle persone disabili (art. 2); a definire politiche accessibili a tali soggetti e a promuoverne  le possibilità di impiego sul mercato libero del lavoro (art. 3). Le modalità di attuazione di tali iniziative devono inoltre prevedere il coinvolgimento delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, delle associazioni dei disabili e di quelle associazioni che si occupano di loro (art. 5).
Gli strumenti sono i servizi di orientamento e di formazione professionale; il collocamento; tutti i servizi all’impiego ed altri servizi destinati a consentire ai disabili di ottenere e conservare l’impiego, ma anche di progredire professionalmente (art. 7). Gli Stati devono inoltre assicurare che siano formati e messi a disposizione consiglieri esperti in reinserimento, personale qualificato per l’orientamento e per la formazione professionale,  oltre che per il collocamento delle persone disabili.
Accanto alla promozione di politiche attive, la convenzione n. 168, adottata il 21 giugno 1988, si preoccupa, secondo una necessaria complementarietà, di fornire protezione sociale contro la disoccupazione.
La disabilità viene indicata quale possibile causa di discriminazione nella garanzia di pari trattamento dei diritti presi in considerazione dalla convenzione (art. 6).
Per individuate categorie di persone svantaggiate che hanno o che sono soggette ad avere difficoltà di ricerca di un impiego durevole – come donne, giovani, disabili, lavoratori anziani – ciascuno Stato si deve impegnare a sostenere ulteriori opportunità di lavoro, assistenza nell’impiego; a incoraggiare la libera scelta di un lavoro economicamente remunerato (art. 8, primo comma)[15].
Negli anni Ottanta, l’obiettivo della promozione di pari opportunità di trattamento per le persone con disabilità viene perseguito dall’ILO anche attraverso l’attivazione di programmi più organici.
Il Disability Programme si prefigge di supportare i legislatori e gli attori sociali per la realizzazione di quei programmi relativi alla formazione professionale e alla riabilitazione che possono essere efficace sostegno di una legislazione tesa all’equiparazione delle opportunità e alla parità di trattamento delle persone con disabilità nella formazione e nel lavoro.
Nella più recente strategia messa in atto dall’ILO a favore delle persone con disabilità, il Disability Programme[16], coerentemente con gli obiettivi e le finalità della sua azione, ha trovato collocazione nell’ambito dell’InFocus Programme on Skills, Knowledge and Employability (IFP/SKILLS), che si propone di raggiungere maggiori investimenti nella formazione e nello sviluppo delle competenze al fine di creare opportunità crescenti in ambito lavorativo per gli uomini e donne. Lo scopo ultimo è di contribuire alla realizzazione degli obiettivi strategici indicati dall’Organizzazione per il triennio 2002-2005[17], concorrendo così alla realizzazione della strategia globale ONU per uno sviluppo socialmente sostenibile.
2.3. Nuove strategie per un’effettiva partecipazione sociale della persona con disabilità.
La definizione di norme e prassi per garantire un lavoro dignitoso, che consenta di sfuggire il rischio della marginalizzazione e quindi della povertà[18], è ancora una priorità, sia per l’ILO che per l’ONU, che hanno sovente invitato gli Stati membri ad adottare politiche coerenti con tali obiettivi. Tuttavia, una recente indagine dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), sulla base di un monitoraggio effettuato sulle politiche intraprese da venti Stati aderenti in materia di disabilità[19], ha confermato che ad oggi molti traguardi prefissati non sono stati raggiunti.
E’ apparso difficile conciliare, da un lato, la necessità di assicurare che i cittadini con disabilità siano incoraggiati a partecipare il più pienamente possibile alla vita economico-sociale, in particolare attraverso un lavoro economicamente vantaggioso, che non siano posti fuori dal mercato del lavoro troppo facilmente e troppo in fretta; dall’altro, il bisogno di assicurare che le persone che sono disabili o che lo diventino abbiano un reddito di sicurezza e che consenta loro di vivere dignitosamente.
La soluzione prospettata nel rapporto dell’OECD passa attraverso la promozione di nuove proposte di intervento sulle politiche occupazionali per le persone con disabilità, suggerendo il perfezionamento di interventi quasi tagliati su misura, la rimozione dei disincentivi al lavoro per la persona con disabilità che possa prestare un’attività lavorativa e l’introduzione di una cultura di mutua responsabilità[20].
L’esigenza di rendere più incisiva la strategia scelta dall’ILO, in sinergia con altri soggetti parte del “sistema ONU”, e basata sul doppio binario della prescrizione normativa (di per sè non direttamente cogente per gli Stati membri), e della indicazione di buone prassi agli attori sociali, è stata ripresa anche nella Dichiarazione dei principi fondamentali e dei diritti al lavoro (1998) che riporta l’attenzione delle istituzioni, statali e non, sulla necessità della garantire diritti ed obblighi specifici contenuti nelle convenzioni che, “sia all’interno che all’esterno dell’Organizzazione” sono riconosciuti come fondamentali[21].
Nell’ottobre 2001 il Congresso di Ginevra (formato da esperti di istituzioni e parti sociali convenuti su decisione del Consiglio dell’ILO del marzo 2000) approva all’unanimità il Code of Practice on Managing Disability in the Workplace[22].
I principi che informano il codice sono quelli contenuti nelle più importanti convenzioni e raccomandazioni in materia, ma con uno sguardo alle esperienze e alle buone prassi adottate in alcune realtà per agevolare l’integrazione lavorativa della persona  disabile, con il non trascurabile effetto di diffondere la convinzione che i lavoratori con disabilità possano dare un contributo di valore in azienda e, conseguentemente, che debbano avere uguali opportunità e non essere oggetto di atti discriminatori.
Le finalità concrete sono assicurare pari opportunità ai lavoratori con disabilità sul posto di lavoro; incrementare le prospettive di impiego delle persone disabili attraverso sostegni effettivi nella fase di assunzione, di ritorno al lavoro, di mantenimento del posto di lavoro e di opportunità di carriera; mettere a disposizione un luogo sicuro, accessibile e salubre; assicurare che i costi sostenuti dal datore di lavoro in considerazione della disabilità siano minimizzati e che siano invece massimizzati, sempre per il datore, i benefici conseguibili attraverso l’impiego o il mantenimento in azienda dei lavoratori con disabilità; potenziare il contributo che tali lavoratori possono fornire all’impresa.
Coerentemente agli indirizzi prefissati da una strategia che punta al coinvolgimento responsabile di governi ed attori sociali, nel 2004 ILO, UNESCO e l’Organizzazione mondiale della sanità, anche in relazione al nuovo modello di classificazione ICF, rilanciano la strategia della “Community Based Rehabilitation” (CBR) avviata nel 1994 con la pubblicazione di un documento destinato principalmente alle organizzazioni non governative sul tema del reinserimento, dell’equiparazione delle opportunità, della riduzione dello stato di povertà e dell’inclusione sociale delle persone con disabilità[23].
Nello stesso anno, a seguito del progetto dell’ILO “The Employment of People with Disabilities: the Impact of Legislation”, vengono pubblicate le linee guida per il raggiungimento di uguali opportunità di lavoro per le persone con disabilità attraverso la legislazione[24].
I suggerimenti offerti ai legislatori degli Stati membri sono molteplici: la segnalazione che siano le norme di diritto privato o di diritto del lavoro a promuovere opportunità per le persone disabili già occupate o in cerca di lavoro; l’adozione di una o più definizioni di disabilità che siano coerenti con le difficoltà (non necessariamente legate alla condizione soggettiva, ma anche di tipo ambientale) connesse alla partecipazione in un mercato del lavoro; misure di politica sociale distinte dalle misure di “affermative action”, necessariamente temporanee e devianti dal principio di parità di trattamento.
Gli estensori si soffermano molto sulla opportunità di prevedere delle quote a favore delle persone con disabilità: questa opzione – che, se scelta, deve avere come destinatari sia datori di lavoro pubblici che privati – non dovrebbe escludere altri approcci che pure si potrebbero rivelare più efficaci. L’obbligo di quote di riserva di per sé non aumenterebbe di molto le opportunità per le persone con disabilità di trovare un lavoro, se non fosse strumentale nel lungo periodo ad un effettivo rafforzamento della strategia di occupazione della persona disabile. Non sembra di secondaria importanza l’indicazione di considerare la finalità dell’obbligo di riserva: se lo scopo è quello di aiutare le persone che più difficilmente possono ottenere un impiego, lo schema delle quote dovrebbe essere riservato alle persone con disabilità più gravi. Diversamente, se lo scopo è di ridurre il numero di chi chiede benefici, dovrebbe essere accentuato il carattere universalistico di questa forma di tutela.
Secondo gli autori, inoltre – fermo restando la preferenza per un meccanismo di esonero dall’obbligo di assunzione per quota versando in un fondo un contributo di tipo economico – il legislatore non  dovrebbe trascurare di considerare il contesto economico produttivo del Paese: se le piccole imprese occupano un’alta percentuale di lavoratori, non si potrà trascurare l’inclusione delle stesse fra i soggetti all’obbligo di assunzione.
A completamento degli strumenti normativi per la tutela dei diritti delle persone con disabilità, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 56/168 del 19 dicembre 2001 ha costituito un “Comitato Ad Hoc” con l’incarico di “considerare proposte per una Convenzione internazionale comprensiva e integrale sulla promozione e promozione dei diritti e la dignità delle persone con disabilità (…) basata su un approccio solistico in campo dello sviluppo sociale, i diritti umani e la non discriminazione”.
La partecipazione è aperta, fra gli altri, agli Stati, alle agenzie e agli organismi delle Nazioni Unite, alle commissioni regionali, alle organizzazione intergovernative e non governative che vogliano offrire un contributo al lavoro che il Comitato ha avviato sulla base degli atti delle Nazioni Unite.
Dopo la Prima Sessione (29 luglio-9 agosto 2002), che ha raccolto opinioni e valutazioni da parte degli Stati e di tutte le organizzazioni internazionali, regionali e nazionali, la Seconda Sessione (16-27 giugno 2003) ha costituito un Gruppo di lavoro. Il Gruppo ha già presentato una prima bozza di convenzione, che a partire dal Terza Sessione (24 maggio-4 giugno 2004) ha iniziato ad essere discussa all’interno del Comitato. La Settima Sessione (16 gennaio 2006-3 febbraio 2006) ha in agenda la prosecuzione dell’esame di alcuni articoli della prossima convenzione, al momento articolata in 34 articoli.
3. IL QUADRO NORMATIVO COMUNITARIO
3.1. Dall’affermazione dei diritti sociali alla definizione di politiche integrate per una partecipazione sociale attiva della persona con disabilità.
La politica della disabilità in ambito europeo  è incentrata soprattutto sulle misure finalizzate a favorire l’emersione delle potenzialità di partecipazione sociale dei soggetti disabili, anche attraverso interventi volti a promuovere  l’inserimento nel mondo del lavoro degli stessi e ad assicurare la prevenzione e la repressione dei fenomeni discriminatori.
In tale quadro, l’Unione Europea ha proiettato le proprie politiche ed i propri interventi nella direzione della realizzazione di un sistema di protezione sociale unificato, sia pure nella consapevolezza che la maggior parte degli interventi in materia di disabilità debbano essere svolti a livello dei singoli Stati membri, quale applicazione diretta del principio di sussidiarietà.
Riguardo alla tematica in questione, quindi, va evidenziato che gli Stati membri  rimangono gli attori principali, residuando tuttavia un margine di competenza degli organi comunitari, rivolta essenzialmente a rafforzare la cooperazione tra i singoli Stati e tra questi e la Commissione, in materia di disabilità, di  promuovere la raccolta, lo cambio e lo sviluppo di informazioni, statistiche ed esperienze applicative il più possibile comparabili e di stimolare la più ampia conoscenza, e presa di coscienza, delle tematiche in materia di disabilità.
La proclamazione del 2003 quale anno europeo delle persone con disabilità ha costituito un’importante occasione di riflessione, favorendo un’ampia mobilitazione delle associazioni rappresentative dei disabili e  fornendo nuova linfa, sul piano politico, alle iniziative relative a tale settore.
Come evidenziato anche dalla Comunicazione del 28 novembre 2005 della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni – relativa alla “situazione dei disabili nell’Unione europea allargata: il piano d’azione europeo 2006-2007″ – un dialogo costruttivo tra la Commissione e gli Stati membri, le persone disabili e le principali parti in causa permette di avanzare sulla via della creazione di un contesto propizio ad un’integrazione attiva dei disabili nella società e nell’economia.
La strategia promossa dall’Unione Europea  relativamente  al settore della disabilità si incentra, come si è detto, su due prospettive di fondo, la prima delle quali è orientata nella direzione della tutela dei diritti individuali dei disabili rispetto ai fenomeni di discriminazione, mentre la seconda si basa essenzialmente sulla promozione di politiche comunitarie volte a favorire l’inclusione attiva dei disabili nel mondo del lavoro e nella società.
3.1.1. Il divieto di discriminazione. – Per quel che concerne il primo dei due sopracitati profili, ossia quello attinente al riconoscimento e la protezione dei diritti delle persone con disabilità, va preliminarmente evidenziato che l’articolo 13 del Trattato CE conferisce alla Comunità la facoltà di adottare una legislazione atta a combattere ogni tipo di discriminazione, comprese, quindi, quelle fondate sulla disabilità.
A  partire dalle modifiche al Trattato introdotte ad Amsterdam, la Commissione ha iniziato un intenso lavoro di individuazione degli strumenti comunitari da adottare. Sulla base di una proposta della Commissione, il Consiglio ha adottato, il 27 novembre 2000, la direttiva 2000/78/CE,”che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”. Tale direttiva è stata recepita in Italia con il decreto legislativo n. 216, del 9 luglio 2003[25].
La citata normativa comunitaria proibisce qualsiasi discriminazione, diretta o indiretta, basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali.
Come emerge anche dai “considerando” di tale direttiva, la disciplina contemplata nella stessa si va ad affiancare ai “principi generali del diritto comunitario”  in materia di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Nei “considerando” si sottolinea poi  che l’occupazione e le condizioni di lavoro costituiscono  elementi chiave per garantire pari opportunità a tutti i cittadini, favorendo la piena partecipazione degli stessi alla vita economica, culturale e sociale, nonché la piena realizzazione personale.
Per quanto concerne la disabilità, tale direttiva configura quale discriminazione la circostanza della mancata attribuzione al disabile di una ragionevole sistemazione nel posto di lavoro. In particolare, la “sistemazione ragionevole” si sostanzia, nel caso di specie, nell’adozione di una serie di misure atte ad adattare l’ambiente di lavoro, le attrezzature, l’organizzazione e gli orari ai singoli lavoratori con disabilità, nella prospettiva di facilitare l’accesso degli stessi all’occupazione.
Va inoltre rilevato che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre del 2000, ha superato il carattere di statualità dei diritti fondamentali, sancendo l’indivisibilità dei diritti sociali dagli altri diritti fondamentali. In particolare, La Carta  ha orientato l’ordinamento comunitario sempre più verso le frontiere del pieno riconoscimento dei diritti fondamentali, peraltro assecondando la tendenza già emersa col Trattato di Amsterdam a valorizzare l’eguaglianza sostanziale (sancita anche all’articolo 3  della Costituzione italiana), che costituisce la matrice primigenia del principio di non discriminazione.
La tutela della persona, della sua identità, è imperniata sul riconoscimento di una serie di diritti  – dei minori, degli anziani, e soprattutto, per ciò che qui interessa, dei disabili –  tra i quali emerge il riconoscimento dei diritti alla parità per uomini e donne, ma anche all’espresso divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.
La Carta dei diritti fondamentali tutela specificamente i diritti delle persone con disabilità, in particolare per quel che concerne gli articoli 21 e 26.
In particolare, va evidenziato che tutti i fattori di discriminazione considerati dal testo vigente del Trattato e dalle direttive sono espressamente citati nell’ambito dell’ampio elenco contemplato all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali.  Sia l’elencazione dei divieti di discriminazione, sia i principi fondamentali dichiarati nella Carta, configurano un’integrazione e un arricchimento dei “principi generali del diritto comunitario”, ai quali (come già precisato)  rinvia anche la sopracitata direttiva 2000/78.
L’articolo 26 della Carta riconosce “il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”.
Dal punto di vista operativo, il programma d’azione comunitario per combattere le discriminazioni (2001-2006) intende fornire un valido supporto agli Stati membri nelle azioni di contrasto dei fenomeni discriminatori promosse dagli stessi. Esso consente alla Commissione di finanziare diverse attività di lotta contro la discriminazione sulla base della disabilità, come ad esempio la creazione di reti e di partenariati, conferenze, giornate nazionali d’informazione organizzate dagli Stati membri per sensibilizzare sugli sviluppi nel campo della disabilità, campagne, studi, ecc., perseguendo la finalità di assicurare il massimo coinvolgimento delle persone con disabilità e delle loro organizzazioni rappresentative. Il programma cofinanzia anche i costi di gestione di diverse organizzazioni non governative a livello europeo che rappresentano le persone con disabilità, come ad esempio il Forum europeo delle persone disabili, ecc.
3.1.2. Il Piano d’azione a favore delle persone con disabilità. – Relativamente al secondo dei due sopracitati obiettivi strategici dell’Unione Europea, ossia quello incentrato sulla promozione di politiche comunitarie volte a favorire l’inclusione attiva dei disabili nel mondo del lavoro e nella società, va preliminarmente evidenziato che l’entrata nel mondo del lavoro costituisce un elemento cruciale per l’integrazione delle persone con disabilità nell’economia e nella società in generale, conferendo a tali soggetti una maggiore dignità e un più alto grado di autonomia.
I programmi generali del Fondo sociale europeo e l’iniziativa comunitaria EQUAL costituiscono  i principali strumenti finanziari tramite i quali la Comunità mette in atto i suoi obiettivi in materia di occupazione delle persone con disabilità. Attraverso gli stessi è stata finanziata un’ampia gamma di azioni per l’integrazione delle persone con disabilità nel mercato del lavoro.
Nella prospettiva di garantire standard adeguati di occupazione ai soggetti disabili, la Commissione europea, attraverso l’approvazione di un apposito regolamento, ha consentito agli Stati membri di concedere, senza alcuna autorizzazione degli organismi comunitari, aiuti di Stato a favore dei datori di lavoro, finalizzati ad incentivare l’assunzione di lavoratori disabili.
Inoltre, la Commissione si adopera per assicurare ai lavoratori con disabilità diritti di residenza continuativi e più ampi rispetto alle altre categorie di lavoratori migranti dell’Unione Europea.
Come emerge anche dalla Comunicazione del 30 ottobre 2003 della Commissione – relativa alle “pari opportunità per le persone con disabilità: un Piano d’azione europeo” – in ambito comunitario si presta maggiore attenzione all’erogazione di incentivi e prestazioni legati al lavoro dei disabili, in modo tale da superare le logiche di tipo  meramente assistenzialistico.  Il passaggio da misure passive di assistenza sociale a misure di politica attiva del lavoro avrà un effetto positivo sulla situazione economica dei beneficiari e anche sulla loro autostima, contribuendo altresì anche a migliorare la struttura e la qualità della spesa pubblica e a renderla più sostenibile nel medio-lungo termine.
In tale prospettiva di fondo, il piano d’azione dell’Unione europea a favore dei disabili (PAD) costituisce un quadro di riferimento per l’elaborazione di una strategia europea della disabilità. Tale strategia assume sempre più una valenza significativa nell’ambito dell’Unione, le cui politiche –  in base anche all’Agenda sociale 2005-2010 – sono orientate nella direzione della valorizzazione del potenziale economico delle persone disabili e del contributo che esse possono dare alla crescita economica e all’occupazione.
Inoltre, nell’ambito del rilancio della strategia di Lisbona,  la Commissione europea con comunicazione del 30 ottobre 2003 ha invitato gli Stati membri a promuovere l’inclusione dei disabili nei loro futuri programmi di riforma per la crescita e l’occupazione.  I dati statistici – che emergono  dalla  comunicazione della Commissione del 28 novembre 2005 – indicano un divario tra i tassi d’occupazione delle persone disabili e non disabili, in ambito comunitario: nel 2003, ad esempio, il tasso d’occupazione delle persone disabili era del 40%, contro il 64,2% per le persone non disabili. Per le persone con una disabilità relativamente lieve, il tasso era del 50%. Dalla ricognizione dei dati statistici sopracitati emerge  che in ambito comunitario meno della metà delle persone disabili hanno un’occupazione e tale tasso d’occupazione, piuttosto basso, costituisce una conferma indiretta della centralità della tematica attinente all’inserimento lavorativo dei disabili in seno all’Unione.
Le ragioni dell’elevato tasso di inattività dei disabili risultano differenziate in relazione ai vari paesi membri dell’Unione europea e riguardano da una parte il timore dei disabili di perdere le prestazioni assistenziali di cui fruiscono a seguito dell’inizio di un’attività lavorativa, dall’altra una certa resistenza dei datori di lavoro rispetto all’assunzione dei disabili, volta ad evitare adattamenti costosi dei luoghi di lavoro.
A fronte di tale situazione complessiva, Il Piano d’azione europeo (PAD) persegue  obiettivi operativi, quali la piena applicazione della direttiva sull’uguaglianza in materia d’occupazione,  l’integrazione della questione della disabilità nelle politiche comunitarie e, infine, il miglioramento della cd. “accessibilità” dei disabili al lavoro (intesa quale possibilità per gli stessi di fruire di sistemi tecnologici .
Il PAD copre il periodo 2004-2010 in fasi successive (la prima va dal 2004 al 2005, la seconda dal 2006 al 2007). Tale piano si è incentrato, in una prima fase, sull’obiettivo di favorire l’accesso dei disabili al mercato del lavoro, attraverso l’adozione di misure volte ad incrementare gli standard di occupabilità, sulla promozione di una formazione continua, sulla diffusione delle tecnologiedell’informazione, nonché sull’agevolazione dell’accesso dei disabili nell’ambiente di lavoro.
Il Fondo sociale europeo (FSE) e altre iniziative comunitarie sostengono in modo costante l’integrazione delle persone disabili nel mercato dell’occupazione.
Sotto l’impulso dell’Anno europeo delle persone disabili, sono stati registrati taluni progressi per quel che concerne il miglioramento delle condizioni di vita di tali soggetti, nonché  la sensibilizzazione sui loro diritti fondamentali e sulle loro necessità. Grazie ad una vasta gamma di iniziative, tra cui progetti pilota e studi, la Commissione europea ha contribuito a migliorare la cd. “accessibilità”. In particolare, la comunicazione sull'”accessibilità” del settembre 2005  mira a promuovere un approccio coerente alle iniziative intraprese su base volontaria negli Stati membri per agevolare l’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e favorire l’autoregolamentazione dell’industria.
La seconda fase del PAD è incentrata sull’inclusione attiva delle persone disabili, basandosi sul concetto di disabilità contemplato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Il concetto di disabili come cittadini implica che le persone disabili possano fruire della stessa libertà di scelta e dello stesso controllo sulla loro vita quotidiana delle persone non disabili, il che presuppone un ambiente nel quale le stesse possano godere di maggiore autonomia. Le persone disabili e le loro necessità individuali sono quindi al centro dei servizi di assistenza e di sostegno.
Va inoltre evidenziato che uno dei principali obiettivi della strategia riveduta di Lisbona sull’occupazione consiste nell’”attrarre e trattenere più persone al lavoro, aumentare l’offerta di manodopera, e modernizzare i sistemi di protezione sociale”.
Vengono incoraggiate le strategie che facilitano l’adattamento e la reintegrazione nella vita professionale delle persone che diventano disabili nel corso della loro vita attiva promuovendo, a tal fine, i servizi di riabilitazione, l’assistenza personale individualizzata e l'”attrattiva” del lavoro. In tale prospettiva, i “percorsi di integrazione e ritorno al lavoro” per le persone svantaggiate, come le persone disabili, costituiscono una delle priorità d’azione proposte dalla Commissione per il prossimo ciclo di programmazione (2007-2013).
Va poi sottolineato che il regolamento della Commissione europea sugli aiuti di Stato, a favore dell’occupazione, permette agli Stati membri di istituire incentivi per i datori di lavoro che assumano e mantengano in attività lavoratori disabili.
Inoltre, tramite il dialogo sociale, la Commissione incoraggia le parti sociali, in particolare a livello intersettoriale, ad applicare le raccomandazioni formulate nelle loro dichiarazioni sull’occupazione delle persone disabili.
Altra tematica cruciale per la promozione dell’occupazione delle persone con disabilità  è costituita dalla formazione professionale, che riveste particolare importanza rispetto agli individui disabili, in quanto lo sviluppo di tutte le abilità e competenze necessarie consente a tale categoria di lavoratori maggiori opportunità di inserimento lavorativo. La Commissione europea ha elaborato uno specifico programma di apprendimento telematico, indirizzato ai disabili, ed ha altresì prefigurato un rafforzamento del sostegno da parte dei singoli Stati membri – nell’ambito dei rispettivi sistemi di educazione e di formazione – agli interventi volti a favorire la formazione professionale dei disabili.
L’acquisizione di dati affidabili e comparabili è inoltre essenziale per comprendere l’evoluzione della situazione delle persone disabili e le interazioni con altri campi d’attività. Saranno a tal fine intrapresi, in ambito comunitario, studi finalizzati ad  analizzare i dati ottenuti mediante precedenti indagini Eurostat. Per mezzo del sistema statistico europeo (SSE) e nel quadro del programma statistico comunitario 2002-2007, saranno elaborate statistiche coerenti sull’integrazione dei disabili nella società. In particolare, va evidenziato che Eurostat lavora a uno specifico “modulo sull’integrazione sociale delle persone disabili” nella sua indagine europea sulla salute.
Il sesto programma-quadro per le attività di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione (2002-2006) e il successivo settimo programma per il periodo 2007-2013 continueranno a finanziare i lavori di ricerca sulla disabilità.
Entro le grandi linee della Strategia di Lisbona, la promozione delle pari opportunità per le persone con disabilità va al di là dell’integrazione mediante l’occupazione. Al proposito, il nuovo processo di inclusione sociale, avviato dal Consiglio europeo di Nizza sulla base del metodo di coordinamento aperto, sembra avere tutte le potenzialità per garantire un sostegno agli Stati membri nel contrasto dei fenomeni di emarginazione delle persone con disabilità, assicurando nel contempo che le persone più vulnerabili non siano escluse dall’accesso a diritti, servizi e risorse fondamentali.
Sotto gli auspici dell’Anno europeo per i disabili, i Ministri degli affari sociali e dell’occupazione hanno adottato nel giugno 2003 una risoluzione relativa alla promozione dell’occupazione e dell’integrazione sociale delle persone con disabilità. La risoluzione invita gli Stati membri, la Commissione e le parti sociali a continuare gli sforzi per eliminare le barriere che si frappongono all’integrazione e alla partecipazione delle persone con disabilità sul mercato del lavoro, rafforzando le misure in materia di parità di trattamento e migliorando l’integrazione e la partecipazione a tutti i livelli del sistema educativo e formativo.
L’efficace attuazione dell’Agenda di Lisbona esige che le politiche dell’occupazione degli Stati membri perseguano, in modo equilibrato, obiettivi quali la piena occupazione, la qualità e produttività del lavoro, nonché la coesione sociale e l’inclusione. Tutti questi obiettivi sono risultati strumentali all’integrazione delle persone con disabilità nel mercato del lavoro.
Inoltre, gli orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell’occupazione, contestualmente alla rinnovata Strategia europea per l’occupazione (SEO), prevedono la promozione dell’integrazione e la lotta contro la discriminazione dei soggetti che si presentano in condizioni di particolare debolezza sul mercato del lavoro, come, appunto, le persone con disabilità. In particolare, le politiche avranno l’obiettivo di realizzare entro il 2010 una riduzione significativa in ciascuno Stato membro del divario sul piano della disoccupazione in cui versano le persone svantaggiate.
4. La situazione sociale e normativa in Italia
4.1. Diritto al lavoro della persona con disabilità: qualche dato.
Fornire un quadro sulle condizioni di vita e di lavoro delle persone con disabilità, che sia davvero esaustivo non è facile: in Italia gli interventi per la disabilità spettano a molti Ministeri ed Enti, ognuno dei quali rileva i dati statistici necessari al monitoraggio di ciò che è di sua competenza.
Purtroppo ciò che viene rilevato non fa sempre riferimento alle stesse persone anche perchè i termini handicap, disabilità, invalidità, inabilità rimandano a significati differenti[26].
In Italia, come nella maggior parte degli altri Paesi, non si è ancora giunti ad un insieme organico e completo di dati sui diversi aspetti della disabilità.
Ne consegue che non si è in grado di dire con precisione quante siano le persone con disabilità in Italia, quali disabilità abbiano, quale sia il loro livello di integrazione sociale e neppure quali bisogni siano soddisfatti e non soddisfatti.
La disponibilità di informazioni statistiche sulla disabilità rappresenta un presupposto fondamentale per la corretta attuazione delle norme e per l’assegnazione di risorse adeguate.
Il Progetto Sistema di Informazione Statistica sulla Disabilità intende sopperire a tale carenza.
Su sollecitazione della Legge n.162/98 (art. 41 bis), all’inizio del 2000 l’allora Dipartimento per gli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio – oggi Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali – ha assegnato all’ISTAT il compito di costituire un insieme coordinato e integrato di fonti statistiche sulla disabilità che consenta di fare programmazione sulla base di dati completi e affidabili.
Il Progetto Sistema di Informazione Statistica sulla Disabilità si propone di far conoscere in modo più approfondito il mondo della disabilità, avviando anche un processo di riorganizzazione dei dati esistenti, di coordinamento – laddove possibile – degli attuali flussi informativi e stimolando la realizzazione di nuove indagini per quei settori o aspetti della tematica ancora scoperti o carenti di informazioni.
Si tratta, peraltro, di un progetto complesso che impegna, oltre all’ISTAT, altre Istituzioni competenti in materia e produttrici di informazioni statistiche fondamentali per la comprensione delle problematiche connesse alla disabilità.
Può soccorrere gli operatori nella definizione di un linguaggio comune il ricorso al nuovo modello di valutazione e classificazione della salute e della disabilità adottato il 21 maggio 2001 dai Paesi partecipanti alla 54ma Assemblea Mondiale della Sanità.
L’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health – ICF) si propone di fornire un linguaggio standard e unificato che serva da modello di riferimento per la descrizione delle componenti della salute e degli stati ad essa correlati[27]. Esso può essere utilizzato in discipline e settori diversi (clinico, statistico, ricerca, politiche di welfare, ad esempio) in quanto, non solo fornisce una base scientifica per la comprensione e lo studio della salute, delle condizioni, conseguenze e cause determinanti ad essa correlate[28], ma stabilisce, appunto, un linguaggio comune allo scopo di migliorare la comunicazione fra i diversi utilizzatori (tra cui gli operatori sanitari, i ricercatori, gli esponenti politici e le stesse persone con disabilità), consentendo di rendere possibile il confronto tra dati raccolti in Paesi, discipline sanitarie, servizi e periodi diversi.
Sulla base di quanto sopra riferito – e in attesa del recepimento delle indicazioni dell’ICF – diventa pertanto difficile operare un rapporto fra numero totale di persone con disabilità e numero delle persone che rientrano nell’ambito di applicazione della L. n. 68/99.
Resta altresì difficile stimare quante sono le persone con disabilità che, pur essendo iscritte negli elenchi di cui all’art 8 della L. n. 68/99, sono effettivamente disponibili al lavoro.
La percentuale di persone con problemi di salute e riduzione di autonomia continuativa, che risultano occupati nel 2002, è pari al 18,7% mentre per le persone con problemi di salute ma nessuna riduzione di autonomia, o con una riduzione di autonomia saltuaria, la percentuale è pari al 42,2%; per le persone senza disabilità, invece, gli occupati sono il 56,6% di tutta la popolazione in età lavorativa.
Secondo la stessa rilevazione (relativa all’anno 2002), il 74,5% degli occupati con problemi di salute e riduzione di autonomia continuativa non si sentono in grado di svolgere alcuni tipi di lavoro.
La presenza di un grave problema di salute influenza la risposta in relazione al carico di lavoro dell’impiego disponibile. Infatti, il 69,7% delle persone con problemi di salute e riduzione di autonomia continuativa non si sentono in grado di gestire un pesante carico di lavoro. Mentre l’8,1% delle persone con problemi di salute e riduzione di autonomia continuativa, non occupate, dichiarano di essere disponibili a lavorare a condizioni adeguate[29].
Fra le persone occupate, con una riduzione di autonomia continuativa, quelle con un’età compresa fra i 15 ed i 44 anni sono il 47,7%; tra i 45 ed i 64, sono il 52,3%.
Gli occupati senza riduzione, o con riduzione di autonomia saltuaria, rientranti nella fascia d’età fra i 15 ed i 44 anni, sono il 45,1%; quelli con un’età fra i 45 ed i 64 anni sono il 54,9%.
Le persone senza problemi di salute rappresentano il 67,7%, nella prima fascia d’età considerata; quelli nella seconda fascia d’età sono il 32,3% .
Nell’Italia settentrionale prevalgono, fra i disabili occupati, le persone senza riduzione o con riduzione di autonomia saltuaria (55,2%). Nell’Italia centrale la prevalenza di occupati si ha fra le persone che hanno una riduzione di autonomia continuativa (21,1%)[30]. E nell’Italia meridionale la percentuale maggiore di occupati, il 28,6%, dichiara essere senza problemi di salute.
Considerando la distribuzione degli occupati per genere, i maschi con un’età compresa fra i 15 ed i 64 anni con una riduzione di autonomia continuativa sono il 65,2%; le femmine sono il 34,8%.
Nella stessa fascia d’età, i maschi senza riduzione o con riduzione di autonomia saltuaria sono il 65,1%, mentre le femmine rappresentano il 34,9%. I maschi senza problemi di salute costituiscono il 61,8% del totale; le femmine sono il 38,2%.
Il tasso di disoccupazione è più altro tra le donne (circa l’11%)[31], a prescindere dalla gravita delle condizioni di salute dichiarate.
In relazione alla tipologia di contratto le persone con riduzione di autonomia continuativa sono prevalentemente impiegate con contratto a tempo indeterminato (61,1%; con contratto a tempo determinato 7,4%), che sembra prevalere come tipologia contrattuale anche fra le altre categorie di persone, fin qui prese in considerazione in relazione alla gravità dichiarata di problemi di salute.
Si osserva, inoltre, che ben il 35,9% delle persone con riduzione di autonomia continuativa dichiarano di aver bisogno di un aiuto sul posto di lavoro per il migliore svolgimento dell’attività lavorativa.
Esaminando il numero di iscritti all’anno 2004 nelle graduatorie provinciali per distribuzione geografica, si osserva che nel Nord Ovest le persone con disabilità sono 68.767 (in leggero aumento rispetto ai precedenti due anni), il 68,4% delle quali si dichiara disponibile al lavoro. Nel nord Est il numero degli iscritti è inferiore rispetto agli anni precedenti, ammontando a 33.987, il 63% delle quali è disponibile al lavoro.
Una consistente variazione nel numero degli iscritti si riscontra nell’Italia Centrale. In valore assoluto si tratta di 107.634 persone (rispetto al precedente dato 2003: 87.188). I disponibili al lavoro sono in percentuale l’80,6% degli iscritti.
La stessa situazione si risconta anche nell’Italia Meridionale (isole comprese): gli iscritti sono 345.668 (rispetto al precedente dato: 259.386). Solo il 33,2% degli iscritti si dichiara disponibile al lavoro.
Guardando alla variazione annua nel periodo 2002-2004 delle quote di riserva nelle imprese di diversa fascia dimensionale si osserva che nelle imprese dai 15 ai 35 dipendenti si è riscontrato un incremento di 15.691 unità rispetto alle 11.924 del 2002.
Lo stesso trend incrementale si rileva nelle imprese che occupano dai 36 ai 50 dipendenti: rispetto al 2002 (6.748), l’incremento è di 6.323 potenziali posti di lavoro in più.
In termini quantitativi l’incremento più rilevante è rinvenibile nelle imprese con oltre 50 dipendenti: da una quota di riserva parti a 52.174 unità (2002), si passa a 137.288 unità nel 2004 (variazione di 85.114).
Appaiono altresì di interesse i dati riguardanti la richiesta di esonero avanzati dai datori di lavoro nell’anno 2004.
Il rapporto fra esoneri richiesti e rilasciati nel Nord Ovest è pari all’89%; nel Nord Est lo stesso dato è del 91,8%. La percentuale è invece inferiore nell’Italia Centrale e Meridionale, rispettivamente l’85,1% e il 76,5%
Tali dati, rispetto all’anno 2003, rivelano una diminuzione della percentuale nel Nord Ovest, nell’Italia centrale e nel Sud. Nel Nord Est il rapporto fra esoneri richiesti e rilasciati è aumentato di circa il 10%.
Esaminando i numeri relativi alle assunzioni in relazione alla tipologia di avviamento in ambito nazionale, si riscontra una tendenziale diminuzione degli assunti con richiesta nominativa nell’anno 2004 rispetto al precedente.
Nel Nord Est gli assunti sono passati da 3.164 a 2.154. Analoga diminuzione si riscontra nel Centro (da 2.544 a 1.601) e nel Sud (da 3.782 a 2.225).
In controtendenza è il Nord Ovest passato, con un leggero incremento, da 4.212 assunti con richiesta nominativa nel 2003 a 4.540.
Le assunzioni per convenzione (a prescindere dalla tipologia della stessa) sembrano vedere delle variazioni, rispetto all’anno 2003, in corrispondenza della contrazione delle assunzioni con richiesta nominativa, peraltro, non in tutte le aree geografiche.
Nel 2004 gli assunti con convenzione nel Nord Ovest sono passati da 3.517 a 2.887; una contrazione si è avuta anche nell’Italia centrale, dove si è passati da 1.833 a 1.293.
Un incremento delle assunzioni per convenzione, invece, si nota nel Nord Est e al Sud: nel 2004 gli assunti con questa tipologia di avviamento sono stati rispettivamente di 1.800 unità e di 974 unità.
Pare significativo concludere con i dati relativi alle convenzioni ex art. 11 ed ex art. 12.
Per quanto riguarda la prima tipologia di convenzione, rispetto all’anno precedente, l’anno 2004 ha visto in quasi tutto il territorio nazionale un significativo incremento delle richieste (in controtendenza il Nord Est). Il numero di convenzioni stipulate, in generale, non ha visto variazioni considerevoli[32]. Nel Nord Ovest, peraltro, il numero di convenzioni è passato da 2.686 a 2.026.
Quanto alle convenzioni ex art. 12 il numero di quelle stipulate e di quelle richieste in relazione all’area geografica per l’anno 2004 sono i seguenti.
Nel Sud, si è avuta una sola richiesta di convenzione ex art. 12, poi stipulata. Nell’Italia centrale le convenzioni stipulate sono state 9 a fronte di 10 richieste. Nel Nord Est e nel Nord Ovest tutte le richieste hanno avuto esito positivo (rispettivamente 3 e 4).
4.2 Dalla legge n. 482/68 alla legge n. 68/99.
I soggetti ascoltati, anche i più critici verso la legge n. 68, hanno comunque convenuto nel considerarla un deciso passo in avanti rispetto alla precedente legge n. 482 del 1968.
In tale giudizio convergono ovviamente valutazioni e considerazioni di diversa natura, e punti di vista per altri aspetti fortemente divergenti, ma, nel complesso, si riscontra una pressoché totale unanimità nel riconoscimento della novità dell’approccio ai temi della disabilità elaborato dal legislatore del 1999. In primo luogo, sotto il profilo culturale. La legge del 1968 era stata elaborata in una fase in cui il sistema produttivo italiano era ancora caratterizzato da un impianto sostanzialmente fordista, con una presenza egemonica dei grandi complessi industriali e finanziari (in gran parte pubblici) e con un modello occupazionale sostanzialmente omogeneo, caratterizzato dal prevalere del lavoro subordinato a tempo indeterminato, presidiato da forti  garanzie quanto alla stabilità del posto di lavoro.
Le profonde modificazioni economico-strutturali che contraddistinguono l’ultimo ventennio del XX secolo – i processi di decentramento produttivo, di globalizzazione dei mercati e di progressiva affermazione della società dell’informazione (ICT) – vedono il passaggio dal modello fordista al “non modello” postfordista, caratterizzato dalla diversificazione e dal conseguente profondo riassetto del mercato del lavoro.
Anche negli stati dell’Europa continentale, caratterizzati, più che i paesi anglosassoni, da un modello di stato sociale notevolmente garantista, l’affermarsi di esigenze di articolazione e flessibilizzazione delle forme giuridiche ed organizzative del rapporto di lavoro pone il problema di ridefinire il quadro delle tutele, in particolare per le fasce sociali più deboli e marginalizzate, rispetto ad un sistema di welfare modellato sulla figura del lavoratore subordinato a tempo indeterminato.
In tale contesto, l’inserimento lavorativo delle persone disabili non può più connotarsi in maniera quasi prevalente come onere per l’impresa, una diseconomia accettabile per ragioni del tutto estranee alle logiche dell’efficienza produttiva e, pertanto, attuabile solo nei termini di una misura di carattere assistenziale imposta al mondo della produzione attraverso il sistema delle quote.
Il carattere burocratico e coercitivo della legge n. 482, nonostante i tentativi di aggiustamento approntati[33], ne ha reso molto difficile e precaria l’applicazione, e anche le organizzazioni di rappresentanza delle persone disabili convengono sulla sostanziale inidoneità di quell’approccio nella realizzazione di obiettivi occupazionali significativi.
D’altra parte, la necessità di una strumentazione normativa nuova, rivolta specificamente al perseguimento di tali finalità in termini di promozione e di creazione di condizioni effettive di occupabilità, emergeva anche in relazione all’esigenza di recepire gli stimoli e le sollecitazioni derivanti dall’impegno pluriennale, realizzato a livello sociale ed istituzionale, per l’inserimento nel mondo scolastico e lavorativo delle persone con disabilità. Tale impegno, pur avendo trovato codificazione nella “Legge Quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate” (L. 5 febbraio 1992, n. 104[34]), attendeva di essere tradotto nell’ordinamento giuslavoristico in disposizioni che fossero sintesi fra il diritto/dovere al lavoro della persona con disabilità e diritto/dovere di libera, ma socialmente responsabile, iniziativa economica.
La nuova normativa, pertanto, si è proposta l’obiettivo di superare il sistema di tipo assistenzialistico e coercitivo della precedente disciplina, e di muoversi  nella direzione dell’incremento dei livelli di occupabilità delle persone disabili attraverso gli strumenti del collocamento mirato, che presuppongono, peraltro, un più pieno coinvolgimento degli attori sociali ed istituzionali nell’individuazione di soluzioni favorevoli per i diretti interessati, ed accettabili anche dal punto di vista dell’efficienza dell’impresa.
Perché il posto di lavoro risponda il più pienamente possibile alle capacità lavorative, la legge n. 68 prevede di approntare strumenti tecnici e di supporto che permettano di valutare le capacità lavorative della persona e di inserirla in un luogo di lavoro adatto, grazie all’”analisi di posti di lavoro, a forme di sostegno, ad azioni positive e soluzione dei problemi connessi con ambiente, strumenti, relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro e di relazione” (art. 2). I beneficiari della tutela predisposta non sono indistintamente tutti i soggetti con una qualsiasi disabilità, ma solo coloro che hanno una stabilita riduzione della capacità lavorativa[35]. L’articolo 1, ai commi 4-6, L. n. 68/99 consente di individuare fra le categorie indicate tre gruppi di invalidi – quelli civili (inclusi non vedenti e sordomuti[36]), per lavoro, per guerra o per servizio – in relazione alle quali sono state formalmente mantenute differenti modalità di accertamento della minorazione e di valutazione delle capacità e abilità lavorative e relazionali, apparentemente non omogenee sotto il profilo normativo[37].
La legge n. 68 prevede che tali persone – se in età lavorativa, prive di lavoro ed immediatamente disponibili allo svolgimento di un’attività lavorativa – possono essere iscritte nell’elenco a graduatoria unica istituito presso l’ufficio territorialmente competente a livello provinciale, di norma il centro per l’impiego[38]. Questo ufficio, anche in base alla relazione conclusiva della commissione di accertamento, e in considerazione delle risultanze annotate dal comitato tecnico in una scheda individuale in cui sono riportate le capacità lavorative, le abilità, le competenze e le inclinazioni, la natura ed il grado di minorazione, provvede ad effettuare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro (art. 8, L. n. 68/99; art. 9, DPR n. 333/00) al fine di procedere all’avviamento.
Il diritto all’avviamento si sostanzia nella previsione in capo ai datori di lavoro privati e pubblici di garantire che una certa quota di dipendenti (c.d. “quota di riserva”) sia riservata a persone con disabilità (art. 3, commi 1 e 2, L. n. 68/99; art. 2, DPR n. 333/00).
Rispetto alla disciplina previdente, il legislatore, in generale, prevede una riduzione della percentuale d’obbligo e l’estensione del vincolo anche ai datori di lavoro privati e pubblici con un numero di dipendenti compreso fra le 15 e le 35 unità[39].
In caso di più unità produttive, i datori di lavoro privati (e gli enti pubblici economici assimilati ai datori di lavoro privati) possono essere autorizzati ad operare compensazioni delle eventuali eccedenze di lavoratori con disabilità fra unità produttive dislocate sul territorio di una stessa regione o addirittura sull’intero territorio nazionale .
La legge indica le modalità di computo dei dipendenti al fine della determinazione della quota di riserva[40], ma anche quei datori per i quali viene escluso l’obbligo di riserva[41]. Adottando un criterio premiale, essa sancisce la non computabilità nella quota di riserva di quei lavoratori divenuti inabili per infortunio o malattia nello svolgimento delle loro mansioni a causa dell’inadempimento degli obblighi di sicurezza da parte del datore di lavoro (cfr. art. 4, comma 4).
Il superamento della logica meramente impositiva si coglie, fra l’altro, nella previsione della sospensione dagli obblighi, quando il datore di lavoro ricorre agli strumenti di protezione sociale a seguito di crisi aziendale, e nella possibilità di richiedere l’esonero temporaneo e parziale, quando non è possibile occupare l’intera percentuale richiesta a causa di specifiche caratteristiche dell’attività svolta (ad es.: faticosità della prestazione lavorativa, pericolosità dell’attività svolta, particolari modalità di svolgimento dell’attività lavorative[42]). In quest’ultimo caso, a fronte della presentazione della domanda di esonero, il datore di lavoro deve provvedere, quale parte della comunità sociale nella quale opera, un contributo economico al Fondo regionale per l’occupazione, pari a 12,91 euro, per ogni lavoratore non assunto per tutto il periodo di durata dell’esonero.
Per poter consentire il collocamento mirato delle persone con disabilità, il datore di lavoro entro 60 gg. dal giorno successivo al sorgere dell’obbligo di assunzione (art. 7, comma 1, L. n. 68/99) deve presentare una richiesta di assunzione all’ufficio provinciale per il collocamento mirato o stipulare una convenzione.
Valorizzazione del momento negoziale fra datore di lavoro e uffici competenti, la convenzione rappresenta certamente lo strumento privilegiato dal legislatore per la realizzazione effettiva dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità.
In generale, con la convenzione (della quale si parlerà con maggior dettaglio più avanti, con particolare riferimento all’articolo 12 della legge n. 68 e all’articolo 14 del decreto legislativo n. 276 del 2003) stabiliscono tempi e modalità di assunzione che il datore di lavoro si impegna ad effettuare secondoun definito programma di inserimento (che può prevedere tirocini formativi, di orientamento, assunzione con contratto a termine o con periodi di prova più ampi di quelli del CCNL applicabile, ma anche deroghe ai limiti di età e durata dei contratti di apprendistato: art.11, commi 2 e 6, L. n. 68/99).
La possibilità per il datore di lavoro di negoziare alcune condizioni del rapporto di lavoro non costituisce l’unico vantaggio insito nella stipulazione della convenzione, che può altresì consentire di coprire l’intera quota d’obbligo con la richiesta nominativa, superando le limitazioni che la legge prevede (art. 7, comma 1, L. n. 68/99; art. 6, DPR n. 333/00) per non escludere altre persone con disabilità, probabilmente quelli di più difficile collocazione, dalla possibilità di un’occupazione.
Ulteriore incentivo all’assolvimento dell’obbligo tramite convenzione, qualora la convenzione abbia per oggetto l’assunzione, è la previsione di differenti agevolazioni contributive (fiscalizzazione totale o parziale dei contributi previdenziali ed assistenziali) in considerazione della gravità della riduzione della capacità lavorativa del lavoratore assunto (art. 13, comma 1, lett. a) e b)). A valorizzare la necessità di azzerare le differenze nell’accesso al lavoro, il datore che provveda alla trasformazione del posto di lavoro, per renderlo adeguato alle possibilità operative dei disabili (con riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%) che possono esservi occupati, oppure alla predisposizione di tecnologie di telelavoro oppure ancora alla rimozione di barriere architettoniche, ricevono un rimborso forfetario parziale (art. 13, comma 1, lett. c)).
A tal fine  è istituito un Fondo nazionale presso il Ministero del lavoro (art. 13, comma 4, L. n. 68/99) che, unitamente al Fondo regionale che le regioni devono istituire, provvede ad erogare i finanziamenti per l’inserimento lavorativo.
Pur confidando nel meccanismo di incentivazione predisposto, l’assolvimento dell’obbligo è rafforzato dalla sanzione per il mancato o tardivo invio del prospetto informativo e per la scopertura della quota di riserva per cause imputabili al datore di lavoro (57,17 euro al giorno per ogni lavoratore che si sarebbe dovuto assumere).
4.3 Il ruolo degli attori istituzionali e sociali nella L. 68/99.
La legge n. 68 del 1999, come accennato nel paragrafo precedente, mostra un profondo mutamento nella concezione del collocamento delle persone con disabilità[43]. Si delinea un nuovo metodo di avviamento al lavoro che, partendo dalla valutazione delle capacità lavorative della persona con disabilità, raccomanda l’adozione di strumenti per un inserimento lavorativo rispondente sia alla professionalità del lavoratore che alle esigenze produttive del datore di lavoro.
Coerentemente con tale logica, il legislatore costruisce un impianto normativo articolato, che poggia le proprie fondamenta su un insieme di posizioni giuridiche e su un sistema di relazioni fra soggetti sociali ed istituzionali appena tratteggiato nei suoi elementi essenziali.
La valutazione di quest’ultimo aspetto è tutt’altro che secondario quando, come nel caso della legge in esame, gli attori istituzionali investiti del compito della realizzazione del modello sono chiamati ad assumersi un ruolo indirettamente promozionale delle politiche attive delle persone con disabilità (cfr. art. 6, comma 1, L. n. 68/99).
Verificare, quindi, la coerenza degli strumenti indicati dalle leggi agli obiettivi prefissati dal legislatore non può prescindere dalla ricostruzione di ruoli e funzioni dei soggetti chiamati a concorrere nel garantire il diritto al lavoro delle persone con didabilità.
Prima di descrivere sinteticamente gli attori istituzionali nei loro ruoli e funzioni occorre fare cenno alle riforme che hanno investito i soggetti pubblici titolati di potere di gestione e intervento in materia, realizzate prima e dopo dell’entrata in vigore della L. 68/99[44].
In attuazione della L. 1 marzo 1997, n. 59, il D.lgs. 23 dicembre 1997, n. 469 concretizzando il principi del decentramento amministrativo e di sussidiarietà, assegna alle regioni e agli enti locali funzioni e compiti relativi “al collocamento e alle politiche attive del lavoro, nell’ambito di un ruolo generale di indirizzo, promozione e coordinamento dello Stato” (art. 1, comma1).
Il D.lgs. n. 469/97 disegna un nuovo sistema dei servizi per l’impiego, indicandone le finalità e prescrivendone il raccordo con le politiche attive del lavoro e quelle formative.
Alla regione, investita di un ruolo progettuale delle iniziative in materia di occupazione e sviluppo del mercato del lavoro nella logica della sussidiarietà verticale ed orizzontale, viene dato mandato di adottare, entro i 6 mesi successivi all’entrata in vigore, una legge che, oltre ad assicurare l’integrazione riferita, deleghi alle province le funzioni ed i compiti relativi al collocamento e, a discrezione, la gestione ed erogazione dei servizi connessi all’attività di programmazione ed indirizzo regionale[45].
Fra gli organi strumentali che devono essere costituiti dalla regione, si segnalano:
– la Commissione regionale permanente tripartita, quale sede concertativa di progettazione, proposta, valutazione e verifica rispetto alle linee programmatiche e alle politiche del lavoro di competenza regionale;
– un organismo istituzionale, finalizzato a rendere effettiva sul territorio l’integrazione tra i servizi per l’impiego, le politiche attive del lavoro e le politiche formative.
Nella logica della “responsabilità partecipata”, il legislatore dispone che le province individuino adeguati strumenti di raccordo con gli altri enti locali, prevedendo il coinvolgimento degli stessi nella individuazione degli obiettivi e nell’organizzazione dei servizi connessi alle funzioni e ai compiti relativi al collocamento (art. 4, comma 2). Gli organi strumentali della provincia, indicati dal legislatore, sono:
– la Commissione unica provinciale per le politiche del lavoro, quale organo tripartito permanente di concertazione e di consultazione delle parti sociali in relazione alle attività e alle funzioni attribuite alla provincia;
– uno o più centri per l’impiego  per la gestione ed erogazione dei servizi attribuiti alle province (art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 469/97).
*  *  *
La legge n. 68/99 non richiama espressamente tutti questi organi, molti dei quali concorrono alla gestione in concreto della legge.
La normativa regionale sembra uniforme nell’attribuire alla Commissione regionale tripartita l’elaborazione di politiche per l’occupazione e di  indicazioni organizzative dei servizi per l’impiego, ma ancora di più sulle azioni da intraprendere per la promozione del diritto al lavoro delle persone con disabilità (si pensi, ad esempio, alle direttive relative alla stipula delle convenzioni, non solo quelle di recente tipizzazione come quella di cui all’art. 14, D.lgs. n. 276/03).
Nel quadro di indirizzo delineato a livello regionale, la Commissione unica provinciale definisce quali iniziative intraprendere al fine dell’inserimento dei disabili: in particolare approva lo schema di convenzione quadro, nonché i criteri per la formazione della graduatoria provinciale.
L’art. 6, comma 2, lett. b), L. n. 68/99 prevede che nell’ambito della Commissione unica provinciale sia costituito un comitato tecnico, composto da funzionari ed esperti del settore sociale, funzionari ed esperti del settore medico-legale, funzionari ed esperti dei servizi per l’impiego.
Il comitato tecnico rappresenta nell’impianto normativo un attore importante nella gestione degli adempimenti della legge.
Al comitato tecnico sono affidati i seguenti compiti:
– approvazione della lista dei disabili disoccupati (graduatoria);
– stipula di convenzioni di programma e individualizzate ex art. 12;
– facoltà di approvare la ripetibilità delle convenzioni ai sensi dell’art.12, comma 1 della L.68/99;
– approvazione e concessione di agevolazioni a favore dei datori di lavoro, ex art. 13
– esonero parziale
– compensazione territoriale;
– valutazione delle residue capacità lavorative e predisposizione dei controlli periodici sulla permanenza delle condizioni di inabilità;
– ricezione della relazione conclusiva dell’accertamento della disabilità delle ASL;
– trasmissione alla Commissione per l’accertamento della disabilità di ogni informazione utile ad illustrare il profilo lavorativo della persona con disabilità, e una relazione periodica di aggiornamento sul percorso di inserimento lavorativo;
– richiesta alla Commissione per l’accertamento della disabilità, su propria autonoma valutazione o su indicazione dell’azienda (o ente) presso la quale la persona con disabilità è inserita, di visite sanitarie di controllo circa la permanenza dello stato invalidante e la misura delle capacità residue accertate;
– attivazione di un nuovo accertamento della disponibilità su richiesta della persona inserita o dal datore di lavoro, qualora insorgano particolari difficoltà nella prosecuzione dell’inserimento lavorativo.
I compiti accennati mostrano l’importanza riconosciuta al comitato tecnico nel raccordo fra la commissione medica di accertamento della disabilità (art. 1, comma 4) e gli “uffici competenti” (art. 6, comma 1), ai quali il comitato tecnico deve indicare strumenti e prestazioni atti all’inserimento lavorativo della persona disabile.
Le commissioni di accertamento presso le Aziende Sanitarie Locali, in relazione alle previsioni di cui alla L. n. 68/99, effettuano:
– visite di accertamento delle condizioni di disabilità;
– compilazione della relazione conclusiva;
– accertamento della compatibilità delle mansioni;
– effettuazione delle visite sanitarie di controllo.
L’art. 5 del DPCM 13 gennaio 2000 (“Atto di indirizzo e coordinamento in materia di collocamento obbligatorio dei disabili, a norma dell’art. 1, comma 4, della L. 12 marzo 1999, n. 68”) assegna alle commissioni il compito di compilare la diagnosi funzionale[46] e di accertare le condizioni di disabilità della persona, secondo le tabelle allegate all’atto normativo di integrazione della L. 68/99.
L’accertamento, come chiarito dal legislatore, comporta la definizione collegiale della capacità attuale e potenziale della persona con disabilità e l’indicazione delle conseguenze derivanti dalle minorazioni in relazione all’apprendimento alla vita di relazione e all’integrazione lavorativa.
Sulla base della valutazione globale della persona con disabilità, la commissione predispone, entro quattro mesi dalla prima visita, una relazione conclusiva in cui formula suggerimenti per eventuali forme di sostegno, strumenti tecnici necessari per l’inserimento o il mantenimento al lavoro della persona disabile.
Per poter integrare le informazioni di tipo sanitario, il legislatore contempla espressamente che la commissione possa agire in raccordo con il comitato tecnico per l’acquisizione di quelle notizie che consentano di caratterizzare la posizione della persona disabile nel suo ambiente, la sua situazione familiare, di scolarità e lavoro.
Quale ulteriore elemento di raccordo fra l’attività della commissione ed il comitato tecnico, indicato nel DPCM 13 gennaio 2000 (art. 7, comma 3), si prevede che il comitato tecnico informi la commissione di accertamento del percorso di inserimento al lavoro della persona disabile, anche per poter svolgere successive visite sanitarie di controllo (cfr. anche art. 8).
L’indicazione di una relazione operativa fra comitato tecnico e commissione di accertamento si ritrova anche nel dettato dell’art. 8, comma 1, L. n. 68/99, per cui il comitato tecnico annota in “un’apposita scheda le capacità lavorative, le abilità, le competenze, le inclinazioni, nonché la natura e il grado di minorazione” delle persone disabili che, disoccupate, si sono iscritte negli appositi elenchi.
Ai sensi dell’art. 7, comma 3, DPCM 13 gennaio 2000, una copia della relazione conclusiva riguardante la persona disabile deve essere trasmessa, oltre che all’interessato, anche alla Commissione unica provinciale.
Il legislatore non afferma espressamente la necessaria acquisizione di tale relazione da parte del comitato tecnico prima che questo valuti le residue capacità lavorative e definisca in relazione a queste gli interventi ad hoc da mettere in atto.
Sembra che un’efficace valutazione delle residue capacità lavorative e la conseguente definizione di strumenti operativi sia indirettamente affidata alla sola composizione del comitato tecnico, quale sede di confronto fra soggetti con professionalità differente[47]. Se non diversamente regolamentato da intese fra ASL e provincia, questo mancato raccordo potrebbe impedire di garantire l’obiettivo che la persona disabile venga inserita in un ambiente lavorativo confacente alle sue capacità residue. Anzi, difettando un coordinamento la persona potrebbe essere esposta in concreto al rischio di un ulteriore danno causato dell’errato inserimento lavorativo[48].
Non è da escludere, forse, che il legislatore nel 1999 avesse presente questo problema, rinviando ad una fase successiva la valutazione di un intervento in tal senso. Entrata in vigore la legge, infatti, le commissioni di accertamento si sono trovate di fronte ad un numero consistente di persone da valutare in relazione ai nuovi criteri.
Va inoltre aggiunto che le stesse commissioni di accertamento forniscono informazioni non omogenee rendendo così meno proficuo l’operato del comitato.
Una risposta a questo grave problema potrebbe arrivare dal progetto ICF avviato da Italia Lavoro: la finalità di arrivare all’adozione di un più efficace sistema di catalogazione della disabilità è stata colta anche come occasione per arrivare ad un dialogo con un linguaggio comune fra medici, esperti dei servizi sociali e del collocamento mirato sulla definizione di una scheda professionale del lavoratore che contenga maggiori informazioni anche in relazione al dato medico-sanitario.
Riferendo delle funzioni e dei compiti del comitato tecnico si è accennato all’attività svolta ad integrazione dei compiti attribuiti ai c.d. “uffici competenti”.
L’art. 6, comma 1, L. n. 68/99 afferma che “Gli organismi individuati dalle regioni ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, di seguito denominati «uffici competenti», provvedono, in raccordo con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio, secondo le specifiche competenze loro attribuite, alla programmazione, all’attuazione, alla verifica degli interventi volti a favorire l’inserimento dei soggetti di cui alla presente legge nonché all’avviamento lavorativo, alla tenuta delle liste, al rilascio delle autorizzazioni, degli esoneri e delle compensazioni territoriali, alla stipula delle convenzioni e all’attuazione del collocamento mirato”.
In considerazione della sopra riferita competenza provinciale e della previsione di cui all’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 469/97 tali uffici dovrebbero essere i centri per l’impiego. La legge e le ulteriori disposizioni normative di attuazione, stante la necessaria individuazione da parte delle regioni ai sensi dell’articolo sopra citato, non indicano quale possa essere l’ufficio e che denominazione debba avere.
Ogni provincia, in considerazioni di differenti fattori, ha adottato un proprio modello organizzativo. Le considerazioni che seguono sono frutto anche della ricognizione effettuata dalla Commissione presso i centri per l’impiego, con la diffusione di uno specifico questionario.
In alcune realtà l’ufficio competente è unico a livello provinciale. In altre, presso tutti i centri per l’impiego esiste almeno punto di erogazione dei servizi relativi al collocamento mirato. Alcune province hanno adottato un modello misto per cui alcune attività di front office (iscrizioni e accoglienza) sono svolte presso il centro per l’impiego, a livello decentrato. Altre ancora non rientrano nei modelli presentati per aver sviluppato un sistema a rete che consente di ricorrere all’apporto di associazioni dedicate alle persone disabili, tradizionalmente insediate sul territorio per le stesse attività di front office.
Posto che in linea teorica la soluzione ottimale sembra essere quella di offrire al cittadino con disabilità un servizio che sia facilmente raggiungibile dalla propria abitazione e che quindi non coincida con un ufficio centralizzato, ubicato presso una sede dell’ente Provincia, sarebbe affrettato concludere che altri modelli organizzativi adottati non siano socialmente responsabili perché non ipoteticamente rispondenti ai bisogni della persona con disabilità.
La scelta di uno, piuttosto che di un altro modello presuppone la conoscenza delle caratteristiche socio-territoriali della provincia (attraverso un’attenta analisi del mercato del lavoro, della cultura sociale ed associativa), non disgiunta dalla considerazione degli indirizzi politico istituzionali e delle scelte strategiche ed organizzative non solo della provincia, ma anche della regione.
La conseguente adozione del modello organizzativo sarà tanto più funzionale quanto maggiormente rispondente a differente target di utenza (persone con disabilità, a seconda della tipologia, aziende, cooperative) anche in relazione alla tipologia di servizi offerti, all’integrazione interistituzionale e di intersistema (nonché logica di rete), alla esternalizzazione dei servizi, al rapporto pubblico/privato.
Il compito promozionale di integrazione, coordinamento e collaborazione affidato agli “uffici competenti” vede nel dato organizzativo un aspetto non secondario.
Il legislatore, come ricordato nella citazione iniziale dell’art. 6, comma 1, ha in sostanza voluto valorizzare l’esperienza positiva, sul fronte dell’inserimento lavorativo della persona con disabilità, della collaborazione fra attori istituzionali e attori sociali avviata sperimentalmente in alcune realtà del Paese, prevedendo espressamente un raccordo fra servizi sociali, sanitari, educativi e formativi presenti sul territorio.
L’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, infatti, non può prescindere dalla considerazione di un complesso processo di integrazione sociale della persona, cui possono partecipare a vario titolo strutture e servizi del territorio.
Tale scelta prende le mosse, conformemente alle indicazioni emerse a livello internazionale[49], dalla consapevolezza che la riuscita o meno degli interventi per il collocamento mirato dipende in modo essenziale dalla capacità e volontà, di uffici competenti e strutture territoriali, pubbliche e private, di investire risorse, fornire know-how ed esperienze, avviare processi di integrazione e collaborazione finalizzati alla realizzazione degli obiettivi di inserimento lavorativo.
Peraltro, nella valorizzazione dell’autonomia e in conformità al principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale, il legislatore non ha indicato quale forma giuridica deve essere assunta per la formalizzazione di tali rapporti, né se tali rapporti debbano essere effettivamente formalizzati o piuttosto lasciati alla gestione “ultraleggera” delle relazioni informali.
E’ di tutta evidenza che la scelta della formalizzazione o meno può essere condizionata in concreto dalle esperienze pregresse; dalla cultura di integrazione socio lavorativa delle persone con disabilità; dal ruolo e dall’importanza che le stesse strutture hanno in ambienti diversi.
Resta sul tappeto se e come, nel rispetto dell’autonomia e della sussidiarietà, si possa incentivare la collaborazione fra attori istituzionali e sociali.
Lo strumento normativo, come dimostrano alcune realtà locali, è fondamentale per il coordinamento fra politiche attive del lavoro e formazione. Spesso, peraltro, alle indicazioni programmatiche a livello regionale non corrisponde nei fatti un efficace coordinamento fra uffici.
Sul piano formativo, il coinvolgimento dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni per gli Invalidi del Lavoro (INAIL) in alcune realtà[50] – andando oltre la gestione degli sgravi contributivi – ha consentito di avviare proficui interventi per la riqualificazione e l’inserimento di persone con una disabilità conseguente ad invalidità da lavoro (si veda, in proposito, l’audizione dei rappresentanti dell’Istituto).
Lo strumento della convenzione non sempre si è mostrato altrettanto efficiente per il raggiungimento dell’integrazione con i servizi socio-assistenziali gestiti da altri soggetti istituzionali: in conformità alle previsioni di cui alla L. 328/2000, ai Comuni sono stati affidati compiti di promozione e realizzazione del sistema locale dei servizi sociali a rete. Questi, direttamente o per delega all’ASL, gestiscono i Servizi di Inserimento Lavorativo territoriali, ai quali sono affidati i seguenti compiti:
– inserimento lavorativo;
– lavoro preparatorio e di accompagnamento delle persone inserite nei propri circuiti.
A completare il quadro di presentazione degli attori istituzionali e dei loro ruoli si segnala la Direzione provinciale del lavoro che, unico soggetto con compiti ispettivi e dotato di potere sanzionatorio:
– in caso di rifiuto di assunzione redige e spedisce ai centri per l’impiego e all’autorità giudiziaria il verbale;
– dispone la cancellazione della persona con disabilità dagli elenchi speciali e la decadenza dell’indennità di disoccupazione in caso di rifiuto all’avviamento per mansioni confacenti;
– applica le sanzioni amministrative in caso di inosservanza da parte dei destinatari della norma.
Se il coinvolgimento degli attori istituzionali ha un risvolto di immediata efficienza socio-economica, la partecipazione degli attori sociali all’interno della comunità sociale territoriale di riferimento di fatto resta centrale.
In alcune realtà territoriali, alcuni di questi soggetti spesso hanno la gestione dei servizi sociali o formativi, offrendo servizi di supporto agli uffici competenti per la realizzazione dell’inserimento lavorativo (inserimenti temporanei pre-lavorativi delle persone con certe patologie; tirocini formativi).
Nel caso delle cooperative sociali di tipo b), non solo la L. n. 68/99 richiama l’importanza del loro contributo secondo modalità che saranno riferite nel paragrafo successivo.
La stessa legge, invece, non cita come partner dei servizi per l’impiego le associazioni dei disabili o delle famiglie delle persone con disabilità.
Le stesse, peraltro, oltre ad essere coinvolte nell’attività della Commissione unica provinciale, sono rese partecipi della definizione dei piani di zona.
Fra gli attori sociali in senso lato, resta problematica l’inclusione dell’impresa.
La “partecipazione” dell’impresa si sostanzia nella “contrattualizzazione” dell’inserimento lavorativo della persona con disabilità – attraverso lo strumento della convenzione -, quando non è possibile rinvenire direttamente nell’elenco la persona giusta da inserire in azienda.
La finalità principale è quella di consentire un graduale inserimento della persona con disabilità, anche attraverso un certo adattamento degli strumenti contrattuali.
E certamente, in questa prospettiva, si può pensare all’impresa come soggetto non più “costretto” all’assunzione (filosofia ex L. 482/68), ma parte di un processo dinamico finalizzato all’assunzione: ciò in adesione anche ai principi costituzionali di cui agli artt. 2 e 41 della Costituzione.
4.4. Diritto al lavoro della persona con disabilità: gli strumenti legislativi.
4.4.1. L’accesso al lavoro – Nel paragrafo che segue ci si limita ad illustrare gli aspetti problematici che contrattistinguono gli strumenti indicati dal legislatore per consentire alla persona con disabilità l’accesso al lavoro.
Si tratta di una scelta dettata dalla mancata indicazione da parte del legislatore di misure di tipo promozionale che prendano in considerazione il mantenimento del posto di lavoro.
Non ci si dilunga sulla necessità, confermata dai responsabili provinciali contattati  anche in considerazione delle indicazioni e delle azioni positive di matrice europea (presentate nel paragrafo 3), di focalizzare l’attenzione sulle difficoltà che la persona con disabilità incontra perché il diritto al lavoro finalmente conquistato non si esaurisca in un’esperienza di breve durata (naturalmente non determinata dalla scelta di assunzione da parte del datore di lavoro con un contratto di lavoro non a tempo indeterminato).
Proprio per venire incontro a questa domanda, alcune province hanno (o stanno per) intrapreso una serie di iniziative che saranno esposte in sintesi nelle schede in appendice.
4.4.2. L’ avviamento – Il primo comma dell’art. 7 della L. n. 68/99 prevede che il datore di lavoro possa assolvere all’obbligo di assunzione delle persone con disabilità attraverso due modalità: presentando “richiesta di avviamento agli uffici provinciali competenti ovvero attraverso la stipula di convenzioni ai sensi dell’art. 11”.
Il legislatore ha altresì previsto che annualmente il datore di lavoro è tenuto ad inviare agli stessi uffici un documento denominato “prospetto informativo”[51].
Pur sembrando richiamare il sistema delle denunce di cui all’art. 21, L. n. 482/68, la disciplina del prospetto informativo se ne distanzia in considerazione del carattere strumentale e di incentivazione del collocamento mirato.
In esso devono essere indicati, fra l’altro, “a) il numero complessivo dei lavoratori dipendenti e il numero dei lavoratori su cui si computa la quota di riserva (….); b) il numero ed i nominativi dei lavoratori computabili nella quota di riserva, senza distinzioni riferite al titolo invalidante, con l’indicazione del sesso, dell’età, della qualifica di appartenenza e della data di inizio del rapporto di lavoro; c) il numero dei lavoratori computabili nella quota di riserva assunti con contratto a termine, con contratto di formazione e lavoro, con contratto di apprendistato, con contratto di fornitura di lavoro temporaneo o con contratto di reinserimento, nonché il numero dei lavoratori occupati a domicilio o in modalità di telelavoro (…)”.
Inoltre, ogni anno, entro il 31 gennaio, riferendosi alla situazione aziendale al 31 dicembre dell’anno precedente, il datore di lavoro (privato o ente pubblico economico) deve indicare “i posti di lavoro e le mansioni disponibili per i lavoratori disabili di cui all’art. 1 della citata legge n. 68 del 1999 (…)”[52].
La lettura combinata della disciplina del prospetto informativo e di quella relativa alla richiesta di avviamento – indicata dal legislatore, come inizialmente ricordato, come una modalità di assunzione della persona con disabilità – evidenzia alcuni problemi di coordinamento.
L’art. 9, comma 1, L. n. 68/99 prevede che, entro 60 giorni dal momento in cui sorge in capo al datore di lavoro l’obbligo di assunzione, questi deve presentare la richiesta di avviamento agli uffici competenti.
Il successivo comma 3 precisa che la richiesta di avviamento al lavoro si intende presentata anche attraverso l’invio dei prospetti informativi.
Questa ulteriore indicazione ha portato la dottrina ad interrogarsi se richiesta di avviamento e prospetto informativo assolvano alla stessa funzione o se ognuno di questi atti mantiene una propria autonomia.
Per quest’ultima conclusione si è pronunciato il Ministero del Lavoro con la circolare n. 36, del 6 giugno 2000, chiarendo che quando la richiesta di avviamento coincide con la presentazione della prospetto informativo “si ritiene opportuno prevedere che il prospetto stesso sia accompagnato o integrato da un’esplicita dichiarazione del datore di lavoro, diretta a specificare quale sia o quali siano le unità operative nelle quali si intende procedere all’assunzione del disabile, nonché le modalità di assunzione, per le generali finalità conoscitive sopra illustrate, oltre che, naturalmente, per l’attivazione delle procedure di avviamento da parte dei servizi a ciò chiamati”.
Peraltro, né la L. n. 68/99, né i successivi atti normativi attuativi, consentono di distinguere caratteristiche e funzioni proprie della richiesta di avviamento rispetto al prospetto informativo.
In proposito è significativo osservare il disposto dell’art. 15, relativo alle sanzioni da applicarsi nei casi indicati di inadempimento degli obblighi di legge.
Questa norma individua due situazioni di particolare interesse: il comma, 1 sancisce che i datori di lavoro che non inviano il prospetto informativo nel termine stabilito incorrono in una sanzione di 578,43 euro, maggiorata di 28,02 euro per ogni giorno di ulteriore ritardo; il comma 4, diversamente, non dispone alcuna sanzione per la mancata o tardiva trasmissione della richiesta di avviamento, ma sanziona il mancato assolvimento della copertura della quota d’obbligo, per causa imputabile al datore di lavoro, entro 60 giorni dal momento in cui si è verificata la scopertura.
A rafforzare la prerogativa riconosciuta al prospetto informativo rispetto alla richiesta di avviamento, l’art. 2, comma 4, del DPR 10 ottobre 2000, n. 333, “Regolamento di esecuzione della L. 12 marzo 1999, n. 68, recante norme per il diritto al lavoro dei disabili”, prescrive che entro 60 giorni dall’insorgenza dell’obbligo i datori di lavoro sono tenuti all’invio del prospetto informativo, che equivale alla richiesta di avviamento.
Peraltro, in mancanza di un espresso rinvio sul punto, da parte della legge, ad una norma secondaria di attuazione, questa disposizione, seppur dettata dalla buona intenzione di fare chiarezza su questo problema interpretativo, enfatizza la scarsa linearità del percorso procedurale che conduce all’instaurazione del rapporto di lavoro.
E’ innegabile che non può che essere un documento come il prospetto informativo a consentire di avviare le attività in cui si sostanzia il collocamento mirato e che la previsione dell’obbligo di presentare la richiesta di assunzione, come descritto nel citato art. 9, comma 1, pare di debole efficacia, potendo in concreto risultare – in alcuni casi – di facile elusione[53].
D’altro canto, in un sistema in cui il collocamento abbraccia la logica della “partecipazione responsabile”, come precedentemente esposto, non si può non pensare alla necessità di un atto che abbia sia carattere ricognitivo-dichiarativo, sia di impulso e di responsabilizzazione non tanto ai fini dell’assunzione, quanto in relazione al dovere di garantire agli uffici competenti di svolgere i loro compiti. Né si potrebbe concludere che una tale atto possa portare all’obbligatoria costituzione di un rapporto di lavoro.
L’eventuale decisione di sintetizzare in un unico documento le caratteristiche riferite dovrà anche considerare se le attuali sanzioni sono appropriate per consentire un intervento degli uffici in linea con la logica promozionale del collocamento mirato, nella garanzia di evitare comportamenti opportunistici (c.d. free rider) da parte dei datori di lavoro.
L’art. 15, comma 1, come precedentemente ricordato (e come spesso sottolineato dai responsabili degli uffici contattati nel corso della ricognizione effettuata presso le province, di cui si sintetizzano i risultati in appendice), si preoccupa di sanzionare la mancata e/o la tardiva trasmissione del prospetto informativo, tacendo sulle conseguenze di un’imprecisa compilazione che impedirebbe agli uffici di intervenire. Né si potrebbe, in questo caso richiamare le conseguenze di cui al comma 4 dello stesso articolo, dato che un’errata compilazione non implicherebbe con certezza che la scopertura sia imputabile al datore di lavoro[54].
Inoltrata la richiesta di avviamento o il prospetto informativo, l’ufficio competente provvede a effettuare l’incrocio domanda/offerta al fine di individuare, anche attraverso la scheda professionale del lavoratore con disabilità iscritto negli elenchi a graduatoria unica la persona da avviare.
E’ evidente che quante più informazioni sono a disposizione dell’ufficio competente, tanto più aumenteranno le possibilità di un proficuo inserimento del lavoratore in azienda. In proposito si ricorda che il legislatore non riconosce al Comitato tecnico alcun potere diretto di verifica dell’ambiente di lavoro nel quale viene inserito il lavoratore, nonostante il disposto dell’art. 7, comma 3, DPCM 13 gennaio 2000[55].
Quando è impossibile avviare i lavoratori con la qualifica richiesta o con altra concordata con il datore di lavoro, gli uffici competenti avviano lavoratori di qualifiche simili, secondo l’ordine di graduatoria e previo addestramento o tirocinio da svolgere anche attraverso le modalità previste dall’art. 12 (art. 9, comma 2).
Il legislatore è consapevole della circostanza tutt’altro che infrequente di non trovare il lavoratore idoneo alla posizione da ricoprire perché non in possesso della qualifica specialistica o perché la stessa è di difficile reperimento in un mercato del lavoro in continua evoluzione.
Indica, quindi, un percorso che passa attraverso la valutazione di figure professionali potenzialmente idonee a svolgere una determinata attività, in considerazione della presunta parziale identità delle mansioni che contraddistinguono ciascuna qualifica.
Il punto di arrivo è lo svolgimento di un tirocinio o un periodo di addestramento per adattare le competenze e le abilità.
Innestandosi nella disposizione di cui all’art. 9, comma 2, L. n. 68/99, l’art. 7, comma 6, DPR 333/2000 prevede che: “In caso di impossibilità di avviare i lavoratori con la qualifica richiesta in base al contratto collettivo applicabile, il servizio convoca immediatamente il datore di lavoro privato ai fini della individuazione di possibili soluzioni alternative di avviamento, valutando la possibilità di lavoratori disabili con qualifiche simili rispetto a quella richiesta. In caso di esito negativo, il datore di lavoro medesimo stipula con il servizio una apposita convenzione di inserimento lavorativo, con le modalità previste dagli articoli 11 e 12 della legge n. 68 del 1999 che preveda lo svolgimento di tirocinio con finalità formative per i soggetti e a tal fine individuati”.
Il regolamento integra in maniera sostanziale la legge, limitando il potere di intervento degli uffici competenti. Non solo si indica espressamente un preciso ambito normativo (il CCNL applicato) per la valutazione della presenza o meno nell’elenco a graduatoria unica di un lavoratore con la qualifica richiesta, ma si impone più decisamente una gestione concertata del problema e, solo in seconda battuta, una soluzione dello stesso, che prevede anche l’uso della convenzione ex art. 11.
Questa possibilità, finalmente riconosciuta in modo esplicito[56], letta con il disposto di cui all’art. 13, comma 1, consente all’ufficio di incentivare l’assunzione di una persone con disabilità che richiede un adeguamento del posto di lavoro[57].
Solo nel caso in cui il datore di lavoro convocato non si presenti “o in ogni caso non sia possibile dar luogo alla stipula della convenzione”, l’ufficio avvia il disabile in piena autonomia decisionale, ma tenendo in considerazione il contemperamento degli interessi (cfr. art. 7. comma 7, DPR 333/00).
L’art. 7, comma 8, DPR n. 333/00, quasi norma di chiusura sul punto, asserisce: “Qualora, esperita la procedura di cui ai commi 5 e 6, non sia possibile per causa non imputabile al datore di lavoro, effettuare l’avviamento, il medesimo datore di lavoro può presentare domanda di esonero parziale, ai sensi dell’articolo 5, comma 4, della legge n. 68 del 1999, e della successiva normativa di attuazione, ferma restando l’autonoma attivazione della disciplina che regola l’esonero parziale al di fuori dei casi previsti dal presente articolo”.
4.4.3. L’avviamento per convenzione – Come accennato all’inizio di questo paragrafo, la convenzione rappresenta l’ulteriore strumento previsto dal legislatore al fine dell’assunzione del lavoratore con qualsiasi tipo di disabilità[58].
Traducendo un orientamento più volte espresso dalla Corte Costituzionale, la convenzione vuole essere accordo fra la pubblica amministrazione ed una controparte, pubblica o privata, per il conseguimento di un obiettivo di pubblico interesse. Attraverso la negoziazione fra le parti si giunge così a trovare un punto di equilibrio tra il diritto al lavoro dei disabili (art. 38, comma 3, Cost) ed il diritto di libera iniziativa economica privata degli imprenditori (art. 41 Cost.), superando la precedente concezione burocratica-autoritativa di cui alla L. n. 482/68[59].
La L. n. 68/99 indica diversi tipi di convenzione: la convenzione di inserimento lavorativo (art. 11, commi 1, 2, 3); la convenzione di integrazione lavorativa, per quei soggetti che presentino particolari difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario (art. 11, comma 4); la convenzione stipulata al fine di agevolare l’ingresso nel mondo del lavoro dei disabili attraverso una serie di soggetti dediti ad attività sociali (cooperative, consorzi, organizzazioni di volontariato, ex art. 11, comma 5); la convenzione di inserimento temporaneo presso datori di lavoro privati, cooperative, o liberi professionisti disabili (art. 12).
L’articolazione della convenzione in diverse formule a seconda dei soggetti interessati e delle specifiche finalità perseguite, mostra come il legislatore abbia voluto migliorare uno strumento già presente nell’ordinamento, per farne veicolo privilegiato per l’avviamento delle persone con disabilità.
La possibilità di pervenire a modalità flessibili e consensuali di inserimento nei luoghi di lavoro non solo mira a valorizzare le caratteristiche professionali del lavoratori, ma a soddisfare anche le esigenze occupazionali dei datori di lavoro in modo graduale e progressivo.
L’intenzione promozionale del legislatore trova conforto nella previsione da parte del Ministero del lavoro, con circolare 17 gennaio 2000, n. 4, di rendere più agevole il ricorso alla convenzione attraverso la predisposizione di apposite convenzioni quadro di livello nazionale, sulle quali si prevede di attivare “momenti di confronto con le parti interessate, anche per quanto riguarda le convenzioni stipulate ai sensi dell’art. 12 della legge”.
L’”Accordo tra il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, le Regioni, e le Province Autonome di Trento e Bolzano, i Comuni e le Comunità montane, per la definizione di linee programmatiche per la stipule delle convenzioni”, concluso il 22 febbraio 2001 dalla Conferenza Unificata, ha poi costituito l’ultimo tassello nella regolamentazione della convenzione, pur nei suoi termini generali.
In sintesi si prevede che la stipula della convenzione è finalizzata alla progressiva copertura della quota d’obbligo.
La programmazione può riguardare l’intera quota di riserva ancora disponibile per i lavoratori disabili ovvero una parte di essa. In tale ultimo caso, per la copertura della quota residua  il datore di lavoro utilizzerà, ai fini del totale adempimento degli obblighi, gli ordinari istituti previsti dalla legge n. 68 del 1999.
La convenzione può prevedere una durata differente in relazione ad una serie di parametri[60] e le assunzioni possono essere distribuite in un arco temporale secondo una scansione predefinita che prescriva un definito numero percentuale di avviamenti per ciascun periodo di riferimento.
In alcuni casi, l’eventuale scostamento dalla pianificazione inizialmente concordata non impedisce una ridefinizione dei termini dell’adempimento da parte del datore di lavoro.
La collaborazione del datore di lavoro si sostanzia nel consentire il monitoraggio da parte dei servizi competenti e nell’invio di relazioni informative periodiche sullo stato di adempimento degli impegni occupazionali sottoscritti.
Di seguito si esaminano gli aspetti più rilevanti dei differenti tipi di convenzioni di cui alla L. n. 68/99, nonché della recente tipologia di cui all’art. 14, D.Lgs. n. 276/03.
a)la convenzione di inserimento lavorativo.
Il vantaggio principale connesso alla stipulazione di una convenzione ai sensi dell’art. 11, commi 1, 2 e 3, è essenzialmente legato alla possibilità di una gestione più favorevole delle circostanze di tempo e di modo delle assunzioni, rispetto all’avviamento con richiesta nominativa o numerica.
Come già in parte anticipato, il datore di lavoro che stipula una convenzione con l’ufficio provinciale competente, sentito il Comitato tecnico, può programmare con l’ufficio competente la gradualità dell’inserimento delle persone con disabilità.  Ciò implica la non soggezione a provvedimenti sanzionatori quando si rispettano i tempi programmati nella convenzione, pur in presenza di una scopertura della quota di riserva.
D’intesa fra datore di lavoro e uffici competenti, inoltre, oltre alla facoltà di scelta nominativa a integrale copertura della quota d’obbligo, è possibile convenire “lo svolgimento di tirocini con finalità formative o di orientamento, l’assunzione con contratto di lavoro a termine, lo svolgimento di periodi di prova più ampi previsti dal contratto collettivo, purchè l’esito negativo della prova, qualora sia riferibile alla menomazione da cui è affetto il soggetto, non costituisca motivo di risoluzione del rapporto di lavoro”.
Il Comitato tecnico “può proporre l’adozione di deroghe ai limiti di età e di durata dei contratti di formazione-lavoro e di apprendistato, per le quali trovano applicazione le disposizioni di cui al comma 3 ed al primo periodo del comma 6 dell’articolo 16 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451. Tali deroghe devono essere giustificate da specifici progetti di inserimento mirato”.
b)la convenzione di integrazione lavorativa.
Il comma 4 dell’art. 11, L. n. 68/99 prevede che ulteriori modalità di inserimento lavorativo possano essere oggetto d’intesa per quelle persone con disabilità e con “particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario”.
L’espressione utilizzata fa trasparire la possibilità da parte degli uffici competenti di valutare caso per caso, non solo quindi in relazione alla tipologia di disabilità, la possibilità di ricorrere a questo tipo di convenzione.
Queste convenzioni si distinguono dalla tipologia precedente non solo perché devono essere indicate dettagliatamente le mansioni attribuite al lavoratore disabile e le modalità di svolgimento, ma anche perché vengono rafforzate le forme di sostegno all’inserimento mirato. Vengono altresì previste forme di consulenza e tutoraggio, nonchè verifiche periodiche sull’andamento del percorso formativo.
Quale incentivo all’inserimento di persone con particolari difficoltà si è previsto che i datori di lavoro che stipulano tale tipo di convenzione siano destinatari delle provvidenze economiche del Fondo nazionale, secondo le modalità e le condizioni più avanti sinteticamente illustrate.
c)la convenzione ai sensi dell’art. 11, comma 5.
Oltre alle convenzioni sopra essenzialmente descritte, il legislatore prevede che possano stipularsi delle convenzioni che se ne distinguono sia sotto il profilo soggettivo che quello contenutistico.
Parte della convenzione ex art. 11, comma 5, infatti, non sono i destinatari dell’obbligo di assunzione, ma in sostanza a quei “soggetti pubblici e privati idonei a contribuire alla realizzazione degli obiettivi della L. n. 68/99”.
Proprio quest’ultimo riferimento induce a concludere che le convenzioni di questo tipo non siano immediatamente finalizzate all’inserimento lavorativo, ma possano assumere contenuti differenti in collegamento ad altre disposizioni normative[61].
Come osservato dalla dottrina, solo per questa tipologia di convenzioni il legislatore ha precisato che “gli uffici competenti promuovono e attuano ogni iniziativa utile a favorire l’inserimento lavorativo dei disabili”. Si tratta, come notato, di un’attività complessa – di stimolo e al tempo stesso fattiva – che si propone di essere anche di spinta alla creazione di un articolato sistema di relazioni tra i soggetti chiamati a gestire e ad amministrare l’inserimento delle persone con disabilità.
d)la convenzione ex art. 12.
Con l’articolo 12, (che peraltro avrebbe dovuto essere meglio coordinato, attraverso un richiamo esplicito, con il comma 1 dell’articolo 7) il legislatore, introducendo  una tipologia di convenzione molto differente rispetto a quelle fin qui sinteticamente illustrate[62], ha voluto sottolineare il ruolo sempre più importante che nel tempo ha assunto la cooperazione sociale nel recupero dei soggetti con disabilità, specie i più gravi, favorendo il loro percorso di emancipazione anche in campo lavorativo.
Il dato statistico relativo all’utilizzo di tale strumento conferma la scarsa attrattiva da parte dei soggetti coinvolti, sottolineata (pur pervenendo a conclusioni diverse) dalle associazioni sindacali e datoriali, oltre che dalle associazioni dei disabili.
Non ci si sofferma in questa sede su alcuni aspetti che, pur apparentemente secondari, concorrono a condizionare la risposta a questo dispositivo da parte degli attori coinvolti, quali, fra gli altri, il dato economico-territoriale relativo alle imprese e alle cooperative sociali di tipo b) e le conseguenze derivanti dall’applicazione della nuova disciplina normativa su società e cooperative[63].
Ma il solo dato normativo mostra alcuni punti di scarsa chiarezza che, originando incertezze interpretative su aspetti importanti della disciplina, sono suscettibili di comprometterne gravemente l’efficacia..
In sintesi, si prevede un accordo “trilaterale” fra uffici competenti, datore di lavoro soggetto all’obbligo[64] e cooperative o liberi professionisti disabili che contempli le seguenti circostanze: a) assunzione a tempo indeterminato della persona con disabilità da parte del datore di lavoro, in parziale assolvimento dell’obbligo della quota di riserva; b) impiego della persona con disabilità presso la cooperativa sociale o presso il libero professionista (cui tocca l’assolvimento degli obblighi retributivi, previdenziali e assistenziali relativi); c) indicazione (oltre che dei nominativi delle persone da inserire) dell’ammontare delle commesse che il datore di impegna ad affidare alla cooperativa o al libero professionista con disabilità[65] e del percorso formativo personalizzato.
La prevista non ripetibilità per lo stesso soggetto del periodo di permanenza presso la cooperativa sociale e quindi la non definitività della collocazione del disabile al di fuori dell’azienda[66], – che, giova ricordarlo, deve assumere a tempo indeterminato il lavoratore – e l’indicazione di limiti quantitativi alla possibilità di assolvere all’obbligo di copertura delle quote attraverso questo tipo di convenzione si profilano come “limite e garanzia” del diritto del cittadino disabile a trovare collocazione in un azienda come tutti gli altri e quindi a non essere isolato rispetto agli altri cittadini lavoratori.
La dottrina ha molto dibattuto sulla qualificazione del rapporto intercorrente fra datore di lavoro e lavoratore che offre la sua prestazione per un soggetto terzo, cooperativa o libero professionista, che si prende carico di pressoché tutte le obbligazioni inerenti il rapporto di lavoro, senza averne però  la titolarità.
Al di là della correttezza o meno della definizione di “distacco anomalo” per la tipizzazione del rapporto, va rilevata una notevole inadeguatezza degli aspetti incentivanti contemplati dalla norma in questione, tale da non incoraggiare il ricorso alle convenzioni ex art. 12 da parte dei destinatari dell’obbligo.
La possibilità di lasciare a terzi lo svolgimento di attività formative per l’inserimento lavorativo definitivo in una sede in cui il lavoratore non ha mai prestato la sua attività non costituisce un vantaggio per il datore di lavoro, ma più probabilmente il rischio di non poter valutare direttamente l’inserimento nell’ambiente di lavoro tipico dell’azienda. E conseguentemente diventa molto problematico stipulare una convenzione ex art. 12 che vede come requisito la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il datore di lavoro, seppure attraverso commesse che solo ipoteticamente possono ritenersi vantaggiose.
D’altro lato, anche la cooperativa non è incentivata ad accogliere una persona con disabilità e a formarla, assumendosi direttamente gli obblighi connessi al rapporto di lavoro, in realtà costituito con un terzo, a fronte di una commessa che potrebbe rivelarsi vantaggiosa proprio nel momento in cui il lavoratore ha ultimato la propria formazione.
e)la convenzione ex art. 14, D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276.
L’articolo 14 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, in attuazione della legge 14 febbraio 2003, n. 30, di riforma del mercato del lavoro, introduce uno strumento normativo aggiuntivo e sperimentale per l’inserimento lavorativo delle persone in condizioni di svantaggio, fra le quali rientrano le persone con disabilità[67].
Come è stato osservato dalla dottrina, questa disposizione – molto controversa, come si può evincere dalle audizioni – si colloca  per certi versi nel solco del coinvolgimento delle cooperative nell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità di cui all’art. 12 della legge n. 68, ma se ne distingue per la più forte sottolineatura del ruolo dell’impresa sociale e, al tempo stesso, per lo sforzo di determinare condizioni di maggior favore per i soggetti imprenditoriali destinatari finali dell’obbligo di assunzione.
Come confermato da alcuni dei soggetti auditi, la norma in oggetto ha avuto finora un’applicazione alquanto limitata e appare prematuro esprimere un giudizio sulla capacità o meno di dare risposte più efficaci di quello che appare effettivamente come un nuovo sistema di inserimento lavorativo, e non solo perché di recente introduzione[68].
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sotto il coordinamento di Italia Lavoro, ha avviato, nell’ambito di quella più generale strategia finalizzata allo sviluppo dell’occupazione e dell’inserimento lavorativo delle fasce svantaggiate della popolazione, promossa dall’Unione Europea[69], il progetto LINCS “Sviluppo Territoriale ed Inclusione Sociale”, che ha lo scopo di verificare l’impatto della normativa sui soggetti coinvolti[70].
In sintesi, la norma prevede che i servizi per l’impiego possano stipulare con i soggetti del mercato del lavoro (associazioni imprenditoriali e sindacati) e con associazioni rappresentati delle cooperative sociali di tipo b, convenzioni quadro territoriali per il conferimento di commesse di lavoro alle cooperative sociali da parte delle imprese.
Il comma 2 dell’art. 14, indicando gli aspetti che devono essere disciplinati dalla convenzione quadro, include, fra gli altri: “a) le modalità di adesione da parte delle imprese interessate; b) i criteri di individuazione dei lavoratori svantaggiati da inserire al lavoro in cooperativa (…); c) le modalità di attestazione del valore complessivo del lavoro annualmente conferito da ciascuna impresa e la correlazione con il numero dei lavoratori svantaggiati inseriti al lavoro in cooperativa; d) la determinazione del coefficiente di calcolo del valore unitario delle commesse, ai fini del computo di cui al comma 3,secondo criteri di congruità con i costi del lavoro derivati dai contratti collettivi di categoria applicati dalle cooperative sociali; e) la promozione e lo sviluppo delle commesse di lavoro a favore delle cooperative sociali (…); g) i limiti di percentuali massime di copertura della quota d’obbligo da realizzare con lo strumento della convenzione”.
L’inserimento dei lavoratori disabili che presentino particolari “difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario” si considera utile ai fini della copertura della quota di riserva, a cui ogni datore di lavoro con almeno 15 dipendenti è tenuto[71] in base all’esclusiva valutazione del Comitato tecnico.
Questa norma non modifica formalmente l’art. 12, L. n. 68/99, che rimane in vigore.
Se ne distingue invece per una serie di caratteristiche, quali, un sistema maggiormente istituzionalizzato delle procedure, anche attraverso il metodo della concertazione; i soggetti coinvolti nella definizione delle convenzioni; i contenuti delle stesse; le modalità di assolvimento dell’obbligo, nel caso dell’inserimento lavorativo di persone con disabilità.
La gestione concertata delle decisioni relative all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, peraltro, avviene in una cornice di disposizioni minime e comunque non riguardanti direttamente il contenuto degli obblighi che il datore di lavoro o la cooperativa devono assolvere nei confronti del lavoratore disabile.
In generale, la scelta del legislatore appare coerente con l’impostazione che vede l’inclusione sociale direttamente dentro lo sviluppo economico territoriale[72] ma al tempo stesso non si presenta priva di alcuni rischi che, se trascurati, causerebbero pesanti ripercussioni su alcuni fra i soggetti più deboli del mercato del lavoro.
Sarebbe imprudente non considerare fattori quali la debolezza di un sistema a rete investito della realizzazione di politiche di sostegno per l’inserimento delle persone con disabilità; la difficoltà di superare gli egoismi di parte per il raggiungimento di un obiettivo comune; l’inadeguatezza di alcune realtà cooperativistiche ancora lontane da un certo approccio di mercato, pur compatibile con una logica di non profit. E soprattutto la scarsa recettività da parte del nostro sistema d’impresa di una logica di responsabilità sociale di impresa. Non sembra inutile ricordare gli esiti del recente incontro informale dei Ministri del lavoro e della previdenza sociale dell’Unione Europea sulla necessità di rafforzare la dimensione sociale della nuova Strategia di Lisbona[73]
Su un piano più di dettaglio normativo, rispetto allo strumento di cui all’art. 12, L. n. 68/99, non sembra trascurabile il vantaggio che la cooperativa acquisisce sia attraverso il mantenimento del lavoratore disabile al proprio interno, avvantaggiandosi così della acquisita professionalità al termine di un periodo di formazione in loco, sia attraverso la determinazione concertata di un coefficiente di calcolo del valore unitario delle commesse che consenta alla cooperativa di acquisire un guadagno che vada oltre la copertura del costo diretto e indiretto del lavoratore con disabilità.
Quest’ultimo dato induce, d’altro lato, forti riserve sulla coerenza del mezzo al principio di tutela del più debole nel mercato del lavoro.
L’affidamento di commesse può essere interpretata come merce di scambio rispetto all’inserimento del disabile, non più “soggetto” di diritto, ma “oggetto” di utile che solo indirettamente si traduce in un vantaggio per lui.
Dopo lotte per l’integrazione nel mercato del lavoro, si paventa il rischio di relegare i disabili, specie quelli che presentano maggiori difficoltà di inserimento, nelle cooperative sociali, ai margini di un sistema produttivo cui possono partecipare solo i normodotati.
Rinviando all’appendice l’indicazione degli aspetti di regolazione più significativi delle convenzioni quadro venute a maturare in alcune realtà provinciali (quella di Belluno oggetto di ampia citazione nel corso dell’audizione delle Confederazioni sindacali), si ricorda che, anche con questa finalità, il 24 febbraio 2004, CGIL CISL e UIL hanno firmato un’intesa sull’applicazione dell’art. 14, D.Lgs. n. 276/03.
Il documento prevede, fra le disposizioni più significative, che l’applicazione dell’artico 14 del D.lgs. 276/03 vada fissata in una percentuale massima del 20% della quota obbligatoria; che “alle convenzioni di questo tipo non spetta nessuna delle agevolazioni previste dall’art. 13 della legge 68/99”; che la convenzione a livello aziendale potrà prevedere il passaggio diretto del lavoratore disabile tra cooperativa e azienda; che non potranno essere oggetto di convenzione i lavoratori già presenti nella cooperativa, poiché deve essere possibile la verifica che le persone disabili già inserite in cooperativa abbiano i requisiti previsti dalla legge 68/99 art. 1.
4.4.4 Gli incentivi di tipo economico – A rafforzare il sistema promozionale degli strumenti fin qui descritti nei loro aspetti essenziali e problematici, l’art. 13, L. n. 68/99 indica quali sono le agevolazioni di tipo economico finalizzate a sostenere le assunzioni delle persone con disabilità quando il datore di lavoro stipula una convenzione ex art. 11[74].
In sintesi, si prevedono quattro tipologie di agevolazioni economiche che si diversificano principalmente per durata ed entità.
Per ogni lavoratore assunto che abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79%, o un handicap intellettivo o psichico[75], viene riconosciuta la fiscalizzazione totale per un massimo di otto anni dei contributi assistenziali e previdenziali.
Ogni disabile assunto con riduzione della capacità lavorativa fra il 67% ed il 79%, la fiscalizzazione prevista è pari al 50% per un massimo di cinque anni.
Per agevolare la trasformazione del posto di lavoro, allo scopo di renderlo idoneo alle possibilità operative delle persone con una disabilità superiore al 50%, il legislatore ha previsto in rimborso forfetario. Lo stesso rimborso è previsto per l’apprestamento di tecnologie di telelavoro o per la rimozione di barriere architettoniche.
Il comma 3 dell’art. 13, inoltre, afferma: “Il datore di lavoro che, attraverso le convenzioni stipulate ai sensi dell’art. 11, assicura ai soggetti di cui al comma 1 dell’art. 1 la possibilità di svolgere attività di tirocinio finalizzata all’assunzione per un periodo fino ad un massimo di 12 mesi, rinnovabili per una sola volta, assolve per la durata relativa l’obbligo di assunzione. I datori di lavoro sono tenuti ad assicurare i tirocinanti conto gli infortuni sul lavoro, mediante convenzioni con l’INAIL, e per la responsabilità civile. I relativi oneri sono posti a carico del Fondo di cui al comma 4”.
Questa ulteriore tipologia di agevolazione introduce lo strumento attraverso il quale si provvede all’erogazione dei benefici, sul quale si tornerà più avanti
Prima di esaminare le maggiori criticità osservate nella disciplina del Fondo nazionale, occorrerà ricordare che la scelta di prevedere questi tipi di agevolazioni economiche per incentivare la stipulazione delle convenzioni ex art. 11 raccoglie consensi, ma anche qualche critica.
In primo luogo, la concessione dei benefici non è automaticamente connessa all’accertamento delle condizioni oggettive riferite[76].
L’art. 13 prevede che gli uffici possono concedere ai datori di lavoro, sulla base dei programmi presentati e della disponibilità del Fondo nazionale per il diritto al lavoro dei disabili, le diverse tipologie di agevolazioni.
Si disegna così un ruolo non secondario delle parti in sede di stipulazione delle convenzioni che vuole promuovere una responsabilità solidale dei soggetti promotori dell’inserimento lavorativo della persona con disabilità[77].
Anche in questa prospettiva, si sottolinea la rilevanza dell’incarico degli uffici competenti, ai quali è riconosciuta la facoltà di ammettere o meno il beneficio, nell’ottica promozionale delle legge[78] e coerentemente ai requisiti di efficacia, economicità ed efficienza richiesti all’azione di tali soggetti. Un’unica eccezione si rinviene nel caso in cui la stipulazione della convenzione sia finalizzata all’inserimento lavorativo di una persona con disabilità di tipo psichico[79].
Peraltro, sia alcune delle parti audite[80], sia la quasi totalità dei responsabili degli uffici competenti contattati hanno evidenziato la tardiva erogazione dei benefici (di molto posteriore all’assunzione del lavoratore), a causa anche della complessità delle modalità di ripartizione delle risorse[81] e della scelta della fiscalizzazione quale strumento di finanziamento.
L’art. 5, D.M. 13 gennaio 2000, 91 (“Regolamento recante norme per il funzionamento del Fondo nazionale per il diritto al lavoro dei disabili, istituito dall’art. 13, comma 4, della L. 12 marzo 1999, n. 68”) calibra l’assegnazione delle risorse secondo i seguenti criteri concorrenti: “a) numero e qualità dei programmi finalizzati all’inserimento lavorativo mirato nell’ambito delle convenzioni di cui all’articolo 11 della legge n. 68  del 1999 comunicati dalle Regioni entro il termine del 30 novembre dell’anno precedente, di cui all’articolo 4, comma 1; b) verifica dell’effettiva ed efficace attuazione dei programmi diretti a favorire l’integrazione lavorativa dei disabili, secondo la modalità e con le priorità stabilite dall’articolo 6; c) conformità delle iniziative di integrazione lavorativa agli indirizzi definiti dall’Unione europea in materia di politiche dell’impiego”.
L’intempestiva e incompleta attuazione delle disposizioni relative al decentramento amministrativo e alle competenze degli uffici provinciali in materia di collocamento in molte – ma non in tutte – realtà dell’Italia meridionale[82], incidendo sulla realizzazione dei programmi per l’integrazione lavorativa, limitando l’accesso alle risorse, accentua le differenti condizioni di fondo che influenzano la possibilità di accedere al mercato del lavoro sul territorio nazionale.
Su un piano più sistematico si rileva che il legislatore non prevede alcun beneficio in caso di stipulazione della convenzione “trilaterale” di cui all’art. 12, né per i datori di lavoro, né per le cooperative o i disabili liberi professionisti che accolgono temporaneamente il lavoratore con disabilità.
Anche la stipulazione da parte del datore di lavoro di una convenzione ai sensi dell’art. 14, D.Lgs. n. 276/03 non prevede alcun tipo di incentivazione.
4. 5. Le audizioni svolte. Analisi e proposte.
Lo svolgimento della fase conoscitiva dell’indagine ha fatto emergere numerose problematiche, attinenti a vari profili della normativa vigente, accompagnate sovente da proposte di modifica ed integrazione di essa. Il quadro delle posizioni che viene fornito di seguito  cerca di mettere a fuoco gli argomenti maggiormente trattati, senza peraltro pretese di completezza (si rinvia, per questo aspetto, ai resoconti stenografici e alla documentazione consegnata dai soggetti ascoltati), ma con il fine di contribuire all’individuazione di possibili interventi futuri da parte del legislatore.
4.5.1. Un giudizio d’insieme – Dall’esame della audizioni svolte e dei documenti consegnati dai soggetti ascoltati emerge in primo luogo, come si è già rilevato,  un giudizio complessivamente positivo sull’impostazione generale della legge n. 68 del 1999, e sull’evoluzione che essa ha segnato, nel passaggio dal sistema prevalentemente impositivo della legge del 1968 al sistema attuale, basato sui profili promozionali, sul collocamento mirato, sull’incentivazione economica, sulla valorizzazione delle residue capacità lavorative del disabile e sulla concertazione. Sono invece più articolate e differenziate le valutazioni riguardanti lo stato di attuazione della normativa e le possibili modificazioni ed integrazioni di essa.
In particolare, le organizzazioni dei lavoratori e di categoria dei disabili (CGIL, CISL, UIL, UGL, CONFSAL, FISH, ANMIL), ma anche altre  associazioni (come quelle dell’artigianato e della cooperazione),  pur senza escludere interventi di “manutenzione” della disciplina vigente, ne sottolineano la sostanziale validità e pongono l’accento sulla problematicità dei profili attuativi, considerando prioritario un impegno più stringente di tutti i soggetti coinvolti nelle attività inerenti all’attuazione della legge. Da talune associazioni (ANMIL,  ANMIC) si sottolineano, poi, alcune resistenze, anche di carattere culturale, da parte dei datori di lavoro, e, soprattutto, si segnale l’esigenza di un più intenso impegno delle istituzioni locali, a partire dalle regioni e dai servizi pubblici di collocamento, in sede attuativa.
Sempre al fine di una migliore attuazione della legge, inoltre, le associazioni di categoria e i sindacati si appellano ai datori di lavoro pubblici (non sono mancate, in qualche intervento, osservazioni critiche sui ritardi di talune pubbliche amministrazioni nell’adempiere agli obblighi di assunzione previsti dalla legge) e privati affinché, nell’ottica della responsabilità sociale dell’impresa, concorrano alla rimozione del pregiudizio, ritenuto ancora persistente,  derivante dal nesso impropriamente stabilito tra invalidità ed improduttività (su tale punto si sono soffermati in particolare i rappresentanti della FISH e dell’AMNIL). Le stesse associazioni segnalano, a questo proposito, il rischio che vi possa essere un uso spregiudicato, con finalità elusive della legge, degli esoneri disciplinati dall’articolo 5 della legge n. 68.
Le organizzazioni datoriali, dal canto loro, pongono anch’esse l’accento sul divario tra le finalità indicate dalla nuova disciplina e le effettive realizzazioni, ritenute deficitarie dal punto qualitativo e quantitativo (Confindustria, Confai, ABI, ANIA), e, per questo aspetto, convergono nel giudizio critico, espresso anche da altri soggetti, sull’incompletezza dell’attuazione della legge n. 68. Diversamente da altre organizzazioni ascoltate, però, le associazioni di impresa fanno risalire le cause di tale mancata attuazione ad alcune incongruenze che riscontrano nell’impostazione di fondo della legge stessa. Da parte della Confindustria e della Confapi, ad esempio, si contesta l’efficacia del sistema basato sulle quote d’obbligo computate in base all’organico aziendale, che la legge n. 68 ha mutuato dalla precedente normativa, pur con una diversa modulazione che tiene conto della dimensione dell’impresa. Secondo l’associazione degli industriali, inoltre, per rendere più agibile il sistema del collocamento obbligatorio è necessario procedere anche ad un coordinamento più stretto tra la legge n. 68 e la nuova disciplina del mercato del lavoro, non solo per quanto attiene all’attuazione dell’articolo 14 del decreto legislativo m. 276 del 2003, ma anche per quanto attiene alla possibilità di consentire alle agenzie di somministrazione di provvedere all’intermediazione per il collocamento dei disabili, e di adottare per tale finalità le nuove tipologie contrattuali introdotte con la riforma del 2003, consentendo che le assunzioni effettuate con i nuovi contratti siano computabili nella quota d’obbligo, pro rata temporis per i rapporti di lavoro temporanei. Sul tema dell’armonizzazione della legge n. 68 con la più recente riforma del mercato del lavoro si è soffermato anche il Sottosegretario Viespoli, nel corso della sua audizione presso la Commissione, illustrando le iniziative intraprese in tal senso dal Ministero del lavoro, nonché gli interventi dello stesso Dicastero volti a promuovere azioni di informazione e sensibilizzazione degli attori coinvolti nel processo di integrazione dei lavoratori disabili.
Sempre a proposito del raccordo tra la riforma del mercato del lavoro e la disciplina del collocamento obbligatorio, occorre rilevare che la maggior parte dei soggetti ascoltati  ha ritenuto di non potere esprimere valutazioni definitive sull’efficacia del contratto di inserimento, di cui all’articolo 54 del decreto legislativo n. 276 del 2003, come strumento di avviamento al lavoro per i disabili, in considerazione della limitatezza dell’esperienza maturata fino ad oggi in questo ambito.
Con riferimento al profilo degli adempimenti di carattere normativo, spettanti al Governo, dall’illustrazione svolta dal sottosegretario Viespoli nel corso della sua audizione, si può poi considerare quasi del tutto completato il quadro riguardante l’adozione dei provvedimenti di attuazione previsti dalla legge n. 68, emanati tra il 1999 e l’ottobre 2000. Rispetto alla previsione della legge, non è stato ancora adottato soltanto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri relativo alle c. d. “mansioni escluse” nel settore pubblico (articolo 5 della legge n. 68) concernente l’individuazione  di quelle attività per le quali i datori di lavoro pubblici sono esentati dall’obbligo di assunzione dei disabili, rimesso alle iniziative del Dipartimento della funzione pubblica.
4.5.2. Le differenze territoriali: programmazione e concertazione – Una pressoché totale unanimità si è potuta constatare nel giudizio riguardante la notevole difformità con cui la legge è stata attuata sul territorio nazionale. In linea di massima, la legge risulta applicata con risultati soddisfacenti soprattutto al Centro- Nord  (come è stato evidenziato, peraltro, anche nell’ultima relazione del Governo al Parlamento), mentre al Sud e nelle Isole si riscontrano notevoli lacune, soprattutto per quel che concerne la funzionalità degli uffici pubblici competenti (concordano su questa valutazione CGIL, CISL, UIL, UGL, ANMIC e Confindustria). Secondo i dati riportati dalla FISH (riprodotti anche nel documento della CGIL), il 45 per cento dei servizi per l’impiego non svolge ancora alcuna parte attiva per l’inserimento mirato, prevalentemente nelle regioni del Sud (dove peraltro non mancano punte di eccellenza, purtroppo, però, minoritarie). Questa difformità produce effetti non trascurabili anche per quanto concerne il riparto dei fondi pubblici: in particolare, l’AMNIL ha segnalato la mancata sottoscrizione da parte di alcune Regioni delle convenzioni necessarie per accedere ai finanziamenti del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili, anche per sottolineare che  il persistere di una condotta inerte, da parte di alcune regioni, può produrre un effetto pressoché permanente di perdita delle risorse pubbliche indispensabili, invece, per assicurare uno sviluppo organico dei servizi per il collocamento mirato. Un tale sviluppo, peraltro, secondo alcune organizzazioni dell’artigianato (CNA, Casartigiani) costituisce un prerequisito indispensabile per accrescere in modo significativo la propensione delle imprese (in particolare di quelle di dimensione più ridotta) ad adempiere agli obblighi di assunzione ovvero di procedere alle assunzioni stesse anche in assenza dell’obbligo, in ragione delle convenienze offerte dalla legge.
4.5.3. – Le convenzioni – L’efficienza della spesa costituisce pertanto un tema centrale per quanto attiene all’applicazione della disciplina del 1999, tema che, peraltro, rinvia alla questione della valutazione circa l’attuazione e l’efficacia degli strumenti del collocamento mirato. Ciò, in primo luogo, per quanto concerne il sistema delle convenzioni: su tale strumento sono stati espressi giudizi in generale positivi (si veda, ad esempio, l’audizione dell’INPS) circa la loro idoneità a perseguire gli obiettivi occupazionali indicati dalla legge. D’altra parte,  alcune associazioni dei disabili reclamano un maggiore impegno delle regioni, dei servizi pubblici per l’impiego e dei comitati tecnici nell’attivazione di tali istituti (ANMIL) e altre, pur apprezzando il lavoro svolto, rilevano il mancato impegno dei servizi per l’impiego nel collocamento mirato, soprattutto nel Mezzogiorno (come segnala, tra gli altri, Confagricoltura), nonché una certa tendenza ad utilizzare le convenzioni di cui all’articolo 11 con riferimento al collocamento di persone portatrici di disabilità più lievi, per consentire ai datori di lavoro di poter adempiere, almeno sul piano formale, agli obblighi di legge, trascurando, però, l’impegno per l’inserimento dei portatori di disabilità più gravi ( si veda in proposito il documento dei CUB), che, invece, rappresenta l’obiettivo precipuo di tale disposizione (FISH). Alcune organizzazioni (Confagricoltura, ANCE, ANMIL) hanno poi fatto rilevare come, in alcuni casi e per alcuni settori d’impresa, (anche per  motivi oggettivi, derivanti dalla natura dell’attività e dal grado di pericolosità del lavoro, come nel caso dell’edilizia) lo strumento della convenzione risulta piegato a finalità diverse dagli obiettivi originari, dato che viene utilizzato essenzialmente al fine di procrastinare nel tempo l’effettivo collocamento. La CGIL rileva inoltre che poco più di un terzo delle convenzioni  ex articolo 11 (il 35 per cento) hanno usufruito delle agevolazioni previste dall’articolo 13 della legge n. 68.
Numerosi interventi, anche in risposta a quesiti rivolti dai senatori, sono stati dedicati alle convenzioni previste dall’articolo 12 della legge n. 68 e dall’articolo 14 del decreto legislativo  n. 276 del 2003. Occorre preliminarmente precisare che un giudizio compiuto sull’efficacia delle convenzioni introdotte nell’ambito della riforma del mercato del lavoro del 2003 è ancora prematuro, dato il limitato periodo di tempo entro il quale è stato possibile avviarne la sperimentazione, e la relativa limitatezza di essa (va rilevato, a tale proposito, che la rappresentante della CISL ha sollecitato l’apertura di un tavolo di verifica tra il Governo ed i soggetti coinvolti, sull’andamento della sperimentazione stessa). In generale, sul sistema delle convenzioni contemplato dall’articolo 14 del decreto legislativo n. 276 vi sono opinioni radicalmente divergenti. Esso è duramente contestato da alcune organizzazioni dei disabili (preoccupate soprattutto della possibilità che il collocamento dei disabili medesimi presso le cooperative sociali sancisca in modo permanente una posizione di emarginazione rispetto al mercato del lavoro) e dalla CGIL. Una posizione più possibilista viene da altre confederazioni sindacali (CISL, UGL, UIL), che, in sostanza, valutano positivamente le finalità perseguita dalla norma in esame, soprattutto in termini di incremento delle condizioni di occupabilità di persone con disabilità particolarmente gravi, pur ritenendo necessario che essa venga attuata entro limiti e con modalità ben definite. A tali condizioni sembrerebbe riferirsi l’accordo quadro stipulato tra Cgil, Cisl e Uil (24 febbraio 2004): esso prevede, tra l’altro, che l’articolo 14 possa essere utilizzato al massimo per il 20 per cento della quota d’obbligo, quindi per un numero di soggetti alquanto limitato. Un’applicazione pratica di tale impostazione, richiamata frequentemente nell’audizione delle organizzazioni sindacali, è costituita dalla convenzione quadro siglata (anche dalla CGIL) per la provincia di Belluno: la convenzione, infatti, ha escluso le aziende da 15 a 35 dipendenti e ha circoscritto la validità dell’intesa solo alle persone con disabilità intellettiva (sulla limitazione ai casi più gravi di disabilità, convengono anche altri soggetti: si vada ad esempio l’intervento dei rappresentanti della CNA), fatto salvo il diritto di scelta da parte dell’interessato (se restare in cooperativa o rientrare in azienda).
Le organizzazioni datoriali propongono invece un approccio molto diverso alla questione: esse partono dal presupposto (contestato invece da una parte delle organizzazioni sindacali e dei disabili) della sostanziale inapplicabilità del regime previsto dall’articolo 12 della legge n. 68 (segnalata, sul versante sindacale, anche nell’intervento della UGL), per motivare la loro preferenza per la strumentazione prevista dall’articolo 14 del decreto legislativo n. 276 (si vedano, in particolare, gli interventi dei rappresentanti di Confcommercio e di Confindustria), ritenuta più idonea ad assicurare l’avviamento al lavoro in condizioni compatibili con le esigenze del sistema produttivo. In altri ambiti, ed in particolare da parte delle autonomie locali (ANCI ed UPI), si insiste invece sul rapporto di complementarietà tra le convenzioni di cui all’articolo 12 della legge n. 68 e quelle di cui all’articolo 14 del decreto legislativo n. 276; queste ultime sono pertanto considerate aggiuntive e non sostitutive rispetto alle prime
Sempre su questo argomento, un rilievo particolare è assunto, ovviamente, dall’orientamento del mondo della cooperazione: tutte le associazioni ascoltate concordano nel sottolineare il  ruolo privilegiato che le cooperative sociali possono assumere quale canale di assorbimento di manodopera in condizioni di particolare svantaggio e per tale motivo considerata poco appetibile per le società profit (si veda, a titolo esemplificativo, l’audizione dell’UNCI). La cooperazione segnala inoltre le difficoltà di attuazione dell’articolo 12 della legge n. 68  e, per questo profilo, Confcooperative, Lega delle cooperative, UNCI e AGCI considerano che l’articolo 14 del decreto legislativo n. 276 offra maggiori opportunità di collocamento per le fasce più svantaggiate, pur nelle difficoltà di esprimere valutazioni compiute alla luce del ridotto numero di esperienze maturate fino ad oggi. La Confcooperative ha poi segnalato le  difficoltà incontrate nel raccordare le facilitazioni derivanti dalla legge n. 381 del 1991 con l’articolo 12 della legge n. 68 e l’articolo 14 del decreto legislativo n. 276, già citati, implicitamente segnalando l’esigenza di un maggiore coordinamento tra tali disposizioni, che, secondo la Confederazione,  continuano ad essere vissute sul piano operativo come se fossero strumenti tra loro separati ed indipendenti..
L’ANCI  (formulando una proposta avanzata negli stessi termini anche dalla Confcooperative) propone di modificare il più volte citato articolo 14  prevedendo la possibilità di conferire commesse di  lavoro – sempre nell’ambito di convenzioni quadro su base territoriale, validate dalle regioni – alle cooperative sociali anche da parte delle pubbliche amministrazioni, in particolare da parte dei comuni singoli o associati.
Alcune associazioni hanno infine raccomandato l’adozione di un modello unico di convenzione, quale strumento per facilitare l’applicazione della medesima disposizione (UNCI, Confcommercio, ANIA, ABI).
Si segnale che sulle convenzioni di cui all’articolo 14 del decreto legislativo n. 276 è in corso una attività di monitoraggio nell’ambito del progetto LINCS, promosso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, gestito da Italia lavoro s.p.a. con la partecipazione delle associazioni della cooperazione e  degli enti locali, finalizzato a verificare le condizioni di successo e di criticità relative all’applicazione della disciplina in esame.
4.5.4. Il Fondo e i sistema degli incentivi  – Un altro punto di rilievo attiene al sistema degli incentivi previsti dalla legislazione vigente: giova, in premessa, richiamare le osservazioni dei rappresentanti dell’INPS, che hanno parlato di un sistema sostanzialmente efficiente, facendo riferimento sia ai dati relativi alle assunzioni di disabili, in aumento dal 2003 al 2004 (1.200 disabili collocati al lavoro presso 1.100 aziende, a fronte di  circa 1.900 disabili collocati nell’anno 2004) sia all’analisi dei decreti del Ministero del lavoro di ripartizione delle risorse alle Regioni. Il giudizio dell’INPS sull’efficacia degli strumenti di incentivazione contemplati dalla legge n. 68 è positivo anche per quanto attiene alla compatibilità con la politica dell’Unione Europea per l’inserimento dei disabili, soprattutto con riferimento al Piano d’azione biennale varato a seguito dell’Anno del disabile.
Altri interventi hanno invece posto in luce alcune disfunzioni del sistema delineato dalla legge n. 68: l’ANMIL, come si è detto sopra, si è espressa in modo critico sull’attuale sistema di ripartizione del Fondo per il diritto al lavoro (nel quale sono iscritte le risorse finanziarie destinate agli sgravi contributivi di cui agli articoli 11 e 13 della legge n. 68) che sembrerebbe penalizzare in misura eccessiva le regioni che hanno incontrato maggiori difficoltà soprattutto nell’attuazione delle convenzioni,  e, per questo aspetto, rischia di perpetrare e addirittura accentuare il gap rispetto a regioni che hanno attuato meglio la legge, ma con un numero minore di persone da collocare e una maggiore quantità di risorse. La stessa associazione ha osservato che la scelta di erogare gli incentivi sulla base del grado di disabilità è in contrasto con la filosofia sottesa a tutta la normativa, orientata invece a valorizzare le capacità lavorative residue. A questo punto di vista, che sembra orientato a sollecitare una revisione del sistema degli incentivi, volta a graduare i benefici in relazione alle residue capacità lavorative ed alla qualità dei progetti di reinserimento, si obbietta, da parte di altri (CGIL)  che il vero problema riguarda la revisione complessiva dei criteri che definiscono l’invalidità (come era stato previsto nella delega, non esercitata, contenuta nella legge n. 335 del 1995, di riforma del sistema pensionisticio) e che in assenza di tale misura l’articolo 11 della legge n. 68, come attualmente formulato, garantisce comunque un minimo di certezza per quanto riguarda le erogazioni da effettuare in favore degli imprenditori che effettuano le assunzioni. Anche la FISH è intervenuta con ampiezza sui criteri di riparto del Fondo, rilevando (in sintonia con l’ANMIL) che, in basi ai  criteri adottati con il decreto ministeriale 13 gennaio 2000, n. 91, vengono ad essere fortemente penalizzate le persone con disabilità che vivono nel Sud, poiché, in assenza di servizi mirati, le Regioni non sono in grado di spendere le risorse assegnate sul predetto Fondo e rischiano pertanto di perdere anche quelle dell’anno successivo. Viene raccomandata pertanto la revisione dei criteri di ripartizione del Fondo, affinché si contempli contestualmente il principio della salvaguardia degli interessi dei soggetti doppiamente svantaggiati, perché risiedono in aree con maggiore carenza di servizi, e l’effetto premiante della capacità di investimento sul territorio, eventualmente incrementando a tal fine la dotazione annuale complessiva del Fondo.
Della necessità di incrementare il Fondo ha parlato anche la Confindustria, che ha esposto i disagi derivanti agli imprenditori dal fatto che i benefici previsti dall’articolo 13 della legge n. 68 non vengono erogati   al momento dell’assunzione del disabile, ma in un momento successivo e subordinatamente alla disponibilità della dotazione disponibile dalle province. In sintonia con questo rilievo sono anche le associazioni del commercio (Confcommercio, Confesercenti); in particolare, la Confesercenti  ritiene che un effettivo decollo dell’inserimento  dei lavoratori svantaggiati all’interno delle imprese comporti  una revisione del sistema degli incentivi, nel senso di una maggiore incisività, e, in sintonia con le indicazioni provenienti anche dal comparto dell’artigianato, sottolinea, soprattutto con riferimento ad imprese di piccole dimensioni, non soggette all’obbligo di assunzione, la necessità di promuovere la presenza sul territorio di strumenti e servizi in grado di mettere in relazione le imprese con le competenze di chi è portatore di handicap.
All’interno di una valutazione complessivamente positiva della legge n. 68, la Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome ha manifestato un punto di vista fortemente critico sulle procedure definite dalla legge  stessa e dal D. M.  91 del 2000 relativamente alla concessione delle agevolazioni previste dall’articolo 13, rilevando la sussistenza di diverse e rilevanti criticità, che rendono l’erogazione macchinosa e tardiva rispetto al verificarsi delle assunzioni.  La Conferenza propone pertanto di modificare l’articolo 13, nel senso di trasformare le agevolazioni ai datori di lavoro in contributi e di ripartire il Fondo in quote esattamente proporzionali all’ammontare delle risorse ad ognuna di esse richiesto, in modo tale da superare l’attuale sistema, che le regioni giudicano eccessivamente farraginoso.
Le associazioni dell’artigianato, infine, pongono l’esigenza di individuare uno strumento di incentivazione con modalità contrattuale propria e specifica per l’inserimento del disabile o tendenzialmente costruito sulla condizione della disabilità, attualmente assente (CNA, Casartigiani).
Va infine notato che nell’audizione presso la Commissione, il sottosegretario Viespoli ha ribadito l’avviso del Governo (già  richiamato dai rappresentanti dell’INPS) favorevole a considerare cumulabili, in capo allo stesso lavoratore, il regime di agevolazioni contributive previsto per l’inserimento lavorativo delle persone disabili e  altri regimi di aiuto, concessi a diverso titolo e correlati ad altre forme di incentivazione alla creazione di lavoro, purché per tale via non si ecceda il 100 per cento dell’onere contributivo a carico del datore di lavoro.
4.5.5. Altri temi  – Nel corso delle audizioni sono stati poi trattati alcuni temi, più specifici, che sembrano però meritevoli di essere riportati.
Con riferimento  ai criteri di computo della quota di riserva (di cui all’art. 4 della legge n. 68) L’ANCE ha sottolineato le difficoltà che il comparto edile incontra nel dare attuazione alla disciplina del collocamento mirato, considerati i profili di rischiosità del lavoro nelle costruzioni, non compatibili con l’impiego di lavoratori disabili. Pertanto, ferma restando la computabilità, ai fini dell’individuazione della riserva obbligatoria, di tutte le altre figura presenti nell’impresa edile, l’ANCE, d’intesa con le organizzazioni sindacali di categoria aderenti a CGIL, CISL e UIL, ha proposto di modificare l’articolo 4, comma 1, della  legge n. 68, nel senso di escludere dal computo per la determinazione del numero di soggetti disabili da assumere il personale di cantiere e gli addetti al trasporto nel settore edile.
La CGIL ha posto in rilievo il problema della concessione degli esoneri parziali e del rilascio dei certificati di ottemperanza alle aziende che intendono partecipare ad appalti pubblici, come previsto dall’articolo 17 della legge n. 68. La rimarchevole differenza tra il numero dei certificati di ottemperanza e gli esoneri, infatti, fa ritenere possibile che spesso l’esonero parziale venga richiesto strumentalmente, al solo fine di ottenere la certificazione di ottemperanza, necessaria per prendere parte ai pubblici appalti. Per questo motivo, la CGIL (ed anche la UIL conviene con tale richiesta) segnala l’esigenza di una più rigorosa vigilanza da parte degli organi ispettivi, al fine di evitare un uso distorto della norma di legge.
Numerosi interventi si sono soffermati  sull’articolo 18: esso   stabilisce, al comma 1, che esiste un diritto dei lavoratori già occupati, collocati stabilmente per effetto della previdente disciplina, alla conservazione del posto di lavoro e alla computabilità ai fini della legge.  Il successivo comma 2 ha dettato invece una disciplina transitoria, in attesa di una organica riforma del settore, che stabiliva in favore di orfani e coniugi superstiti di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio, e di altre categorie protette una quota di riserva, sul numero dei dipendenti di datori di lavoro pubblici e privati che occupano più di cinquanta dipendenti, pari a un punto percentuale, e determinata secondo la disciplina di cui alla medesima legge n. 68. Il regolamento di attuazione (DPR 10 ottobre 2000, n. 333) all’articolo 3, comma 1, ha escluso dalla base di computo per la determinazione della quota di riserva i citati soggetti di cui all’articolo 18, comma 2, nei limiti della percentuale ivi stabilita. Tale scelta, secondo alcune associazioni datoriali (ABI, ANIA, Confindustria; Confcommercio), risulterebbe in contrasto con il comma 1 dello stesso articolo 18, e dovrebbe essere pertanto modificata, nel senso di confermare che tutte le assunzioni effettuate in base alla normativa previgente  vengono computate ai fini della determinazione della quota obbligatoria, senza alcuna distinzione. E’ ampiamente condivisa, comunque, sia dalle associazioni di categoria, sia dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, l’esigenza di pervenire quanto prima ad una disciplina organica del diritto al lavoro per le predette categorie, non essendo stata più prorogata, dopo il 31 dicembre 2003, la disciplina transitoria di cui al citato articolo 18, comma 2.
In due distinte audizioni, i CUB e l’UPI hanno poi segnalato la necessità di superare una disposizione che ritengono ormai obsoleta: si tratta dell’articolo 13 del decreto-legge n. 5 del 1971, convertito dalla legge n. 118 dello stesso anno,  a norma del quale le persone con disabilità superiore  al 74 per cento possono richiedere l’assegno di invalidità solo qualora risultino disoccupati. Ne deriva l’obbligo di iscrizione nelle liste e le conseguenti visite da parte delle commissioni mediche AUSL anche per le non poche persone con disabilità che, in realtà, non aspirano al lavoro e non chiedono di usufruire dei servizi del collocamento mirato. A tale proposito, la Conferenza dei presidenti delle regioni e  delle province autonome ricorda che il Governo non ha ancora dato seguito all’accordo del 10 dicembre 2003, intercorso nell’ambito della Conferenza unificata,  con il quale si era convenuto di modificare la normativa vigente nel senso, appunto, di rendere non più necessaria la dimostrazione dello stato di invalidità ai fini del riconoscimento dell’assegno di invalidità.
Per prevenire la discriminazione delle persone disabili sui luoghi di lavoro, la FISH, nel segnalare casi di assegnazione a mansioni residuali, emarginazione e licenziamento, propone di estendere alcune buone prassi, come quella del disability manager, ovvero di una figura aziendale competente, impegnata nell’eliminazione di tutti i fattori di discriminazione. Sempre in tema di strumentazione del collocamento mirato, le organizzazioni artigiane sottolineano il ruolo che può essere assunto dalla formazione come percorso personalizzato di inserimento lavorativo in grado di valorizzare le residue capacità lavorative (si veda in proposito l’intervento della Confartigianato) e  guardano inoltre con interesse alla figura del tutor  come agente del processo di integrazione del disabile sul posto di lavoro.
La FISH e l’ANMIL hanno poi posto il problema della doppia discriminazione subita dalle donne disabili, che risultano fortemente penalizzate nelle procedure di accesso al lavoro. Riportando i dati dell’ISTAT, l’ANMIL ha sottolineato che  solo il 35 per cento del totale degli avviamenti riguardanti i disabili rappresentato da individui di sesso femminile, mentre la FISH ha richiamato i risultati di una ricerca, promossa dal  del Ministero del lavoro e condotta nel 2003, dalla quale per tutte le Regioni di obiettivo 1 (vale a dire per tutte quelle del Sud) risulta assai ridotto il numero degli avviamenti al lavoro delle donne disabili, che sono solo un terzo rispetto ai lavoratori maschi con disabilità. Entrambe le organizzazioni, nel porre in luce questo elemento, hanno sollecitato il Parlamento a prendere in esame alcuni disegni di legge presentati su tale materia nel corso della legislatura.
Alcune organizzazioni sindacali sono intervenute in merito alla composizione ed ai compiti del comitato tecnico previsto dall’articolo  6, comma 2, lettera b) in particolare chiedendo la partecipazione a tale organismo (che, si ricorda, è composto da funzionari ed esperti del settore medico legale ed ha il compito di valutare le residue capacità lavorative e di definire gli strumenti e le prestazioni atti all’inserimento e alla predisposizione dei controlli  periodici sulla permanenza delle condizioni di inabilità) di rappresentanti delle parti sociali
Numerose segnalazioni sono pervenute in ordine all’esigenza di una più puntuale programmazione delle attività finalizzate al collocamento al lavoro delle persone disabili: in particolare, la FISH, nel documento consegnato alla Commissione, si è soffermata con ampiezza sulla necessità di definire un piano d’azione nazionale concordato tra il Ministero del lavoro, la Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome e le associazioni, al quale sarebbe assegnato, in sostanza, il compito di assicurare maggiori uniformità alle procedure, di definire i livelli essenziali delle prestazioni erogate per rendere effettiva la possibilità di inserimento del disabile al lavoro, e di elaborare adeguati livelli di informazione e sensibilizzazione sull’argomento. Su tale ipotesi, peraltro, la CISL ha dichiarato esplicitamente di concordare.
Sempre nell’ambito della riflessione sui profili inerenti la programmazione degli interventi, l’ANCI ha richiamato l’attenzione sull’esigenza di un’azione integrata tra i centri provinciali per l’impiego ed i comuni, titolari di competenze distinte, ma complementari, ed ha auspicato che in futuro i municipi possano assumere un ruolo chiave nello svolgimento di attività di analisi dei contesti territoriali come fase preliminare per la definizione di linee guida per un piano di occupazione delle persone disabili  che, diversamente dal passato, preveda anche  lo studio delle esigenze di una determinata area geografica.
Dalle associazioni giunge anche un invito alle parti sociali, affinché la definizione di politiche adeguate a sostenere il percorso lavorativo dei disabili sia affrontata, in sede concertativi e nell’ambito della contrattazione collettiva a livello nazionale, locale e aziendale.
Può essere infine opportuno segnalare la richiesta, avanzata dall’ABI, che il meccanismo delle compensazioni territoriali, strumento finora utilizzabile solo dalle singole imprese, venga esteso anche ai gruppi di imprese, per i quali al momento è precluso. Sulla stessa materia, la Confcommercio rileva l’onerosità degli adempimenti cui sono soggette le imprese di medie e grandi dimensioni relativamente agli obblighi di comunicazione agli uffici del lavoro, e, propone di semplificare limitando tali formalità ai casi in cui un’impresa abbia in una stessa provincia unità produttive con un numero di dipendenti superiore alle 15 unità.
5. Proposte di intervento.
A seguito delle audizioni svolte, ed in relazione alle osservazioni precedenti sugli strumenti legislativi previsti a garanzia del diritto al lavoro delle persone con disabilità, sono emerse alcune proposte di intervento che si riassumono di seguito, rinviando ai rispettivi paragrafi e alla documentazione allegata per i necessari approfondimenti.
Come si è già evidenziato, l’impianto della legge 12 marzo 1999, n. 68 nei suoi elementi sostanziali non viene messo in discussione dalla generalità dei soggetti ascoltati, a conferma della validità dell’approccio promozionale che la caratterizza rispetto alla precedente L. 2 aprile 1968, n. 482.
Restano, peraltro, delle incoerenze nel testo, segnalate quale oggetto di possibili interventi correttivi e di coordinamento nel paragrafo 4.4.
La constatazione di una notevole disomogeneità territoriale nell’applicazione della legge, con risultati maggiormente positivi nel Centro Nord e con notevoli lacune in gran parte delle aree del Mezzogiorno, rinvia certamente all’esigenza di un maggiore investimento di risorse umane e materiali (in particolare per quel che concerne il Fondo per il diritto al lavoro dei disabili), ma al tempo sollecita una riflessione sulla necessità di realizzare una maggiore integrazione ed un più stretto raccordo tra gli organismi che, soprattutto a livello locale, sono chiamati a seguire il percorso di integrazione lavorativa della persona disabile, dalla fase di accertamento dell’invalidità fino all’inserimento mirato in senso stretto.
A tale proposito, è stato fatto riferimento nel corso delle audizioni all’esigenza di una più puntuale programmazione delle attività finalizzate al collocamento al lavoro delle persone disabili, ai diversi livelli di competenza istituzionale, nonché di un’azione integrata tra i centri provinciali per l’impiego ed i comuni, titolari di competenze distinte, ma complementari.
Su un piano, più generale e di sistema, occorre altresì prendere atto chela realizzazione del pluricitato sistema di gestione dei servizi “a rete”, riconosciuta precondizione per un’efficace funzionamento della L. n. 68/99 (nonché dell’applicazione del disposto dell’art. 14, D.Lgs. n. 276/03), anche in relazione alla nuova attribuzione delle competenze fra Stato ed enti locali, limita la possibilità di intervento del legislatore statale. Ciò non toglie che ci possa essere un intervento – occorrerebbe analizzare di che tipo anche sotto il profilo dell’economicità dell’azione – perché vengano garantiti “standard minimi” di prestazione da parte degli uffici coinvolti. E’ in questo senso che si muove del resto la proposta di un piano di azione nazionale (si rinvia al paragrafo relativo alle audizioni), anche sulla base di sperimentati piani provinciali di intervento avviati in alcune realtà sul territorio nazionale.
Per il raggiungimento dell’obiettivo della realizzazione o del consolidamento (non sempre necessariamente attraverso un intervento di regolazione diretta) della “rete” nella logica della migliore efficacia, efficienza ed economicità degli interventi a sostegno dell’integrazione lavorativa della persona con disabilità, l’azione di coordinamento dovrebbe essere svolta da un soggetto istituzionale di livello nazionale, al quale potrebbero essere affidate anche la diffusione delle c.d. buone pratiche. Si potrebbe prevedere quindi la costituzione di un Osservatorio per la disabilità, che sostenga, promuova, valuti e verifichi – in stretta relazione con il c.d. terzo settore e le imprese sociali –  le azioni e le iniziative da realizzare a sostegno dei disabili in diversi ambiti della vita sociale. Un tale organismo potrebbe promuovere la sperimentazione di di figure professionali (come ad esempio il disability manager) che possono concorrere in modo attivo al superamento degli ostacoli nel percorso di integrazione.
D’altra parte, l’esigenza della programmazione può essere declinata anche in momenti più specifici di coordinamento tra i soggetti operanti nel campo dell’inserimento lavorativo dei disabili.
Al di là del dettato normativo (che pure in alcuni profili potrà essere reso esplicito) sembra ad esempio necessario sottolineare l’esigenza di un più stretto raccordo tra le commissioni per l’ accertamento della disabilità ed i comitati tecnici costituiti nell’ambito della Commissione provinciale unica, così come ancora carente risulta il raggiungimento dell’integrazione dei servizi per l’impiego con i servizi sociali gestiti dai comuni in conformità alle previsioni di cui alla legge n. 328 del 2000. L’assenza di sinergie, da attivarsi preferibilmente attraverso strumenti di carattere pattizio tra i soggetti interessati, può infatti determinare una sottoutilizzazione e alla lunga un impoverimento della dotazione complessiva delle risorse materiali ed umane destinate al collocamento mirato, suscettibile di creare strozzature e vischiosità nei percorsi di integrazione lavorativa dei disabili e di renderne incerti i risultati.
Sul piano funzionale, occorrerebbe contemplare meccanismi di delega alle province delle competenze in materia di formazione, per evitare che gli strumenti del collocamento mirato restino privi di un apporto fondamentale al perseguimento delle finalità istituzionali.
Si pone poi l’esigenza di ripensare sia al sistema degli incentivi sia all’assetto del Fondo nazionale per la disabilità.
Sugli incentivi previsti dall’articolo 13, si è opportunamente osservato che essi sono strutturati in modo tale da prendere come base il grado di disabilità più che il livello della residua capacità lavorativa e la qualità dei progetti di inserimento formulati nell’ambito delle convenzioni. Si tratta, in effetti di un punto critico della disciplina in esame, ed opportunamente, nel corso della discussione, si è ricordato che il legislatore del 1999 effettuò una scelta legata all’esigenza di ancorare l’erogazione degli incentivi ad un criterio certo ed oggettivo, ancorché  fondato prevalentemente su un parametro (quello del grado di disabilità) che non appare del tutto coerente con il modello di occupabilità che si volle allora delineare, nel senso della promozione di opportunità non solo per i diretti interessati ma anche per le imprese.
In relazione a questo problema, è senz’altro meritevole di considerazione l’esigenza, prospettata in alcuni interventi, di avviare un ripensamento dei criteri per l’accertamento della disabilità al fine di renderli  più coerenti con il principio della valorizzazione della residua capacità lavorativa introdotto con la legge n. 68. Come sottolineato nel corso delle audizioni, va verso questa direzione il nuovo sistema di classificazione dell’Organizzazione mondiale della sanità, denominato ICF, sul quale il Ministero del lavoro ha attivato progetto di sperimentazione tramite Italia Lavoro.
Parlando del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili occorre in via preliminare ricordare che da gran parte dei soggetti consultati, e in particolare dai rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali, è stato posto in rilievo il già richiamato tema dell’incremento della dotazione complessiva, ritenuta attualmente troppo esigua per sostenere un sistema di agevolazioni effettivamente funzionante. Anche i criteri di ripartizione del Fondo sono stati oggetto di rilievi certamente fondati. In particolare, da parte delle associazioni di categoria è stato segnalato il rischio che l’attuale meccanismo, tendente a premiare le regioni con una più elevata ed efficiente capacità di spesa, inneschi un circolo vizioso tale  da rendere permanente la perdita di risorse pubbliche per le regioni che in questi anni sono risultate meno attive per quanto attiene all’attuazione della legge, ampliando ulteriormente il divario territoriale.
Occorrerà inoltre riflettere attentamente sulle proposte formulate dalle regioni e dalle province autonome in merito ad una modifica dell’articolo 13, che intende risolvere i problemi inerenti alle difficoltà di utilizzo dei meccanismi di fiscalizzazione ivi previsti e al meccanismo di riparto del Fondo.
La proposta delle regioni e delle province autonome tende a trasformare le agevolazioni ai datori di lavoro in contributi e a ripartire il Fondo nazionale disabili fra le regioni e le province autonome in quote esattamente proporzionali all’ammontare delle risorse ad ognuna di esse richiesto. Su tali temi sono peraltro in corso incontri tra le regioni ed il Governo, ed è auspicabile che si pervenga a soluzioni condivise, che rendano più agevolmente fruibile il sistema degli incentivi. Di certo, le ipotesi formulate dalle regioni e dalle province autonome si muovono verso quella semplificazione degli adempimenti amministrativi caldeggiata anche in sede comunitaria proprio al fine di una migliore realizzazione delle politiche occupazionali e sociali.
Quanto ai metodi di incentivazione indiretta, di tipo non economico, all’assunzione della persona con disabilità, l’indicazione di una compiuta proposta di intervento presupporrebbe un monitoraggio di maggior dettaglio non solo sulla efficacia degli strumenti indicati dalla legge n. 68, ma sul sistema di relazioni  fra gli attori.
Basta in questa sede sottolineare il bisogno di pensare non solo a garantire l’accesso al lavoro, ma anche al mercato del lavoro, nella consapevolezza che la persona con disabilità è un soggetto debole che richiede protezione nel mercato (e da qui la necessità di offrire servizi efficienti) e non dal mercato, pena una disparità di trattamento culturalmente inaccettabile. Ciò richiede una strategia di lungo periodo per la definizione della quale ormai però i tempi sono ampiamente maturi.
Come si è detto illustrando l’andamento delle audizioni, il tema dell’efficienza della spesa rinvia direttamente ad una considerazione più puntuale sugli strumenti del collocamento mirato, a partire dal tema delle convenzioni. Su questo istituto, che rappresenta il punto di sintesi dell’impegno teso al coinvolgimento pieno degli attori sociali ed istituzionali nel processo di integrazione lavorativa delle persone disabili, è stato espresso un giudizio sostanzialmente positivo, anche se vanno prese in considerazione le segnalazioni circa un possibile uso distorto di esso, mirante, in sostanza, ad eludere gli obblighi di assunzione previsti dalla legge, sia nel senso di un loro rinvio, sia nel senso di adempimenti solo formali. Occorrerà pertanto valutare se, oltre alla necessaria intensificazione dell’attività ispettiva, non siano necessari anche interventi del legislatore, per rendere lo strumento più coerente con le finalità che si propone.
Il dibattito si è concentrato molto anche sulle convenzioni ex articolo 12 della legge n. 68 ed ex articolo 14 del decreto legislativo n. 276 del 2003: senz’altro, queste ultime non possono essere considerate sostitutive, ma aggiuntive rispetto alle prime, anche se occorre prendere atto di una obiettiva difficoltà di applicazione della disciplina della legge n. 68 riguardante l’inserimento lavorativo effettuato per il tramite delle cooperative sociali. Sull’articolo 14 del decreto legislativo n. 276 si sono registrate opinioni discordanti, e per alcuni versi anche diametralmente opposte. Al momento, le esperienze realizzate in questo ambito non sembrano tali da consentire l’espressione di un giudizio definitivo sull’efficacia di tale disciplina. È senz’altro da considerare positivamente l’impegno profuso dalle organizzazioni sindacali per definire criteri e parametri certi relativamente soprattutto all’ambito di applicazione soggettivo della norma in questione.  Occorrerà comunque proseguire nella sperimentazione, sollecitando lo svolgimento delle necessarie verifiche nelle sedi istituzionali competenti.
Le audizioni hanno poi evidenziato altri temi, più specifici, che attengono ai profili attuativi della legge n. 68 e ad alcuni possibili correttivi della disciplina del collocamento obbligatorio.
Con riferimento all’audizione del rappresentante Governo, la Commissione ha preso atto del quasi totale completamento del quadro della normazione secondaria previsto dalla legge n. 68: è pertanto necessario che venga adottato quanto prima il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri riguardante l’individuazione delle mansioni per le quali i datori di lavoro pubblici sono esentati dall’obbligo di assunzioni dei disabili (articolo 5, comma 1).
Un altro punto di rilievo riguarda la necessità di distinguere tra le condizioni di accesso al collocamento mirato e quelle di accesso alle prestazioni previdenziali di invalidità ed inabilità. A tal fine, sembra meritevole di attenzione la proposta, richiamata nel paragrafo sulle audizioni svolte, di rivedere l’attuale sistema, previsto dall’articolo 13 del decreto legge n. 5 del 1981, convertito con la legge n. 118 del 1971, che pone un obbligo di iscrizione al collocamento per i disabili che hanno un’invalidità superiore al 74 per cento, suscettibile di tradursi in un inutile ed artificioso rigonfiamento degli elenchi ed in un corrispondente aggravio di lavoro per gli uffici competenti.
Dall’indagine è anche emersa la necessità di considerare i profili di rischiosità di alcune attività lavorative, che non consentono l’impiego di lavoratori disabili. A tale proposito, mentre sembra senz’altro da escludere l’eventualità di consentire l’esonero dagli obblighi della legge per interi comparti produttivi, può essere presa in considerazione la possibilità di agire sui criteri di calcolo della quota di riserva, considerando non computabili agli effetti della determinazione del numero dei soggetti di disabili da assumere i lavoratori che svolgono mansioni incompatibili con la condizione di disabilità.
Con riferimento alla previsione di cui all’art. 7, DPCM 13 gennaio 2000, come sollecitato da molti dei responsabili degli uffici provinciali, si dovrebbe pervenire all’indicazione di un termine più breve, rispetto a quello previsto, per il pronunciamento delle commissioni mediche di verifica del Ministero del tesoro: ciò per provvedere ad un inserimento tempestivo ed efficace (stante l’evidente rilevanza della relazione della commissione medica e in considerazione dei rischi comunque connessi a potenziali avviamenti disposti con riserva).
Sempre per quanto attiene agli aspetti di maggiore criticità dell’attuazione della legge n. 68, sarebbe certamente auspicabile mantenere fermo l’obbligo della certificazione di ottemperanza, nonché un inasprimento del profilo sanzionatorio che la legge ricollega alla disciplina dell’esonero (le sanzioni relative all’esonero non sono state incrementate dal recente DM 12 dicembre 2005) che deve restare parziale e temporaneo. Nel corso delle audizioni è emersa anche l’esigenza di evitare che gli esoneri parziali, di cui all’articolo 5 della legge, vengano richiesti strumentalmente dalle imprese, al solo fine di ottenere il rilascio dei certificati di ottemperanza richiesti per la partecipazione  a bandi per  appalti pubblici, come previsto dall’articolo 17 della legge n. 68.
L’imminente conclusione della legislatura non consente di contemplare la possibilità di pervenire alla messa a punto di una disciplina specifica di sostegno per le donne disabili, che risultano fortemente penalizzate nelle procedure di accesso al lavoro.
E’ tuttavia doveroso esprimere un auspicio affinché, nella prossima legislatura, sia possibile riprendere le iniziative legislative miranti ad assicurare pari opportunità alle donne disabili nella fruizione degli istituti del collocamento mirato, anche in considerazione delle disposizioni di cui al decreto legislativo n. 216 del 2003 (che ha recepito la Direttiva comunitaria n. 78 del 2000). Questa norma riporta l’attenzione anche sulla necessità di interventi specifici per i disabili psichici, sollecitati dalle associazioni e dalle OO.SS., imponendo una riflessione sia su come intervenire per evitare comportamenti discriminatori, sia su come evitare che le specifiche tutele e alcuni degli strumenti promozionali previsti dalla legge del 1999 per le persone con disabilità vedano una diluizione.
Con riferimento alle numerose osservazioni avanzate rispetto alla disciplina transitoria di cui all’articolo 18, appare inoltre improcrastinabile la definizione di una disciplina organica del diritto al lavoro per le categorie protette (orfani, vedove, profughi, etc.), non essendo stata più prorogata, dopo il 31 dicembre 2003, la disciplina transitoria di cui al predetto articolo 18, comma 2.


[1] Sommariamente (e senza pretesa di esaustività nella complessa articolazione dell’organizzazione dell’ONU) agenzie/organismi ONU competenti sono: nell’ambito del rapporto fra disabilità e sviluppo, la Banca Mondiale e più recentemente il Programma globale delle Nazioni Unite sulla disabiltà; disabilità e diritti umani, Alto commissariato per i diritti umani; disabilità ed educazione, UNESCO; disabilità e mondo del lavoro, Organizzazione Internazionale del lavoro (ILO); disabilità e salute, Organizzazione mondiale della sanità (WHO); disabilità nelle aree rurali, FAO; disabilità e diritti del bambino, UNICEF; disabilità e statistiche sulla disabilità, Divisione di statistica delle Nazioni Unite e Divisione di statistica ESCAP. Tutti I documenti più importanti sul sito internet http://www.un.org/esa/socdev/enable/disparl.htm#ecosoc.
[2] Il documento è disponibile sul sito internet http://www.unhchr.ch/html/menu3/b/a_cescr.htm (si vedano in particolare gli artt. 1, 6,7 e 13).
[3] Il documento è disponibile sul sito internet http://www.unhchr.ch/html/menu3/b/a_ccpr.htm (si veda l’art. 26).
[4] L’Anno Internazionale delle Persone Disabili del 1981 vide un proliferare di iniziative (progetti di ricerca, proposte innovative per le politiche da perseguire, raccomandazioni, convegni). Come sottolineato da Margaret Joan Anstee, Direttore Generale dell’Ufficio delle Nazioni Unite a Vienna e Capo del Centro per gli Affari Sociali e Umanitari nel corso della sessione di apertura dell’incontro di esperti in materia di disabilità a Stoccolma, nel 1987: “L’Anno Internazionale delle Persone Disabili del 1981 è stato una pietra miliare nella lunga storia del combattimento delle persone con disabilità contro le discriminazioni e la segregazione e per uguali diritti. Il Programma mondiale di azione per le persone con disabilità (…) ha riconosciuto i disabili principalmente come persone e ancora di più come cittadini, rivestiti di tutti i diritti ed i doveri che questa posizione implica”.
Il Fondo per sostenere economicamente le iniziative relative alle persone con disabilità, costituito nel 1977, ricevette più di 510.000 dollari quale contributo complessivo degli Stati membri.
[5] E’ da questo programma che prende forma l’attuale Programma delle Nazioni Unite sulla disabilità (UN Programme on Disability). Si tratta del programma di punta in materia di disabilità nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite che raccoglie gli obiettivi delle “norme standard”, più avanti richiamate. La gestione è affidata alla Divisione per la Politica sociale e lo Sviluppo del Dipartimento di affari economico-sociali del Segretariato delle Nazioni Unite. Fra i mandati del Programma c’è anche il sostegno all’attività del Comitato Ad Hoc per una convenzione internazionale comprensiva e integrale per promuovere i diritti e la dignità delle persone con disabilità.
[6] Anche questo progetto si accompagna ad una serie di iniziative, fra cui la nomina da parte della Sottocommissione sulla prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze, nel 1984, di un Referente Speciale per lo studio della connessione fra violazione dei diritti umani, violazione delle libertà umane fondamentali e disabilità. Il Fondo per l’Anno Internazionale delle Persone Disabili finanziò, per un totale di 1.100.000 dollari, 51 progetti, fra cui anche attività di tipo promozionale delle iniziative ONU, oltre che di raccolta dati in tema di disabilità. Il 17 dicembre 1991, l’Assemblea Generale adottò i Principi per la protezione delle persone con malattie mentali ed il miglioramento della protezione sanitaria. Il 16 dicembre 1992, l’Assemblea Generale suggerì ai Governi degli Stati membri di osservare il 3 dicembre di ogni anno quale Giorno Internazionale delle Persone Disabili.
[7] Nel 1989 vengono pubblicate le Linee Guida per l’azione di sviluppo delle risorse umane nel campo della disabilità. Le linee guida incoraggiano l’educazione delle persone disabili nell’ambito del sistema scolastico delle persone non disabili e la promozione dell’educazione a quelle capacità funzionali all’inserimento nel mercato del lavoro e, nella logica delle strategie integrate, propongono di adottare strumenti che possano valorizzare la capacità autonoma di vita e di sostentamento della persona con disabilità.
[8] Le “Standard Rules on the Equalization of Opportunities for Persons with Disabilities” sono state adottate con risoluzione 48/96 il 20 dicembre 1993.
[9] A completamento si colloca anche la strategia della Community Based Rehabilitation (CBR), cui si accenna nel paragrafo 1.3., nota 20.
[10] L’International Labour Organization (ILO, Organizzazione Internazionale del Lavoro) è un’agenzia speciale delle Nazioni Unite. Il suo compito è quello di promuovere il miglioramento delle condizioni di lavoro in tutto il mondo, principalmente indicando standard normativi attraverso l’adozione di convenzioni internazionali e raccomandazioni. Va ricordato che le disposizioni, frutto dell’accordo internazionale fra gli Stati membri, contenute nelle convenzioni non sono immediatamente cogenti. Lo Stato membro che la sottoscrive, però, è obbligato a sottoporre entro un determinato termine agli organi nazionali competenti la convenzione stessa per la ratifica e l’emanazione delle norme di esecuzione. Le raccomandazioni, diversamente, non producono in capo allo Stato membro alcun effetto obbligatorio. Contengono indicazioni di tipo programmatico elaborate al fine di richiamare l’attenzione degli Stati membri su determinati problemi.
[11] La Dichiarazione di Filadelfia, come tutti gli altri documenti citati, sono disponibili sul sito internet dell’Organizzazione: http://www.ilo.org.
[12] Entrata in vigore il 25 aprile 1964.
[13] Entrata in vigore il 20 giugno 1985. La convenzione n. 159/1983 si accompagna alla raccomandazione adottata lo stesso anno, n. 168. Questa raccomandazione contiene norme programmatiche sul reinserimento e l’occupazione delle persone disabili. Per economia espositiva si rinvia al capo II “Vocational Rehabilitation and Emplyment Opportunities” e al capo III “Community Partecipation”. Le norme programmatiche ivi contenute possono ancora rappresentare un valido strumento di riflessione anche per il legislatore italiano.
[14] Il dettato dell’art. 4 consente meglio di comprendere in quale contesto storico, sociale e culturale si colloca questa disposizione: “Speciali disposizioni miranti a garantire una effettiva uguaglianza di opportunità e di trattamento fra i lavoratori disabili e gli altri lavoratori non dovranno essere considerate come discriminatorie rispetto a questi ultimi”.
[15] Nella stessa convenzione, si legge l’indicazione degli adulti, “comprese le persone disabili, che hanno completato un periodo di formazione”, fra i beneficiari di determinate prestazioni socio-assistenziali.
[16] Questo programma scaturisce dal precedente Programma mondiale di azione per le persone con disabilità, sopra citato.
[17] Al fine di poter garantire un lavoro decente su scala mondiale sono stati indicati prioritariamente la promozione e realizzazione di standard, principi fondamentali e diritti del lavoro; la creazione di maggiori opportunità per  uomini e donne al fine di per assicurare un impiego ed un guadagno che possa scamparli dalla condizione di povertà.
[18] Con il Summit mondiale per lo sviluppo sociale di Copenhagen (6-12 marzo 1995) si accentua l’attenzione sul rapporto povertà e disabilità.Più recentemente le Nazioni Unite hanno richiamato l’attenzione dei Paesi membri sul tema dell’accessibilità delle persone con disabilità alle nuove tecnologie e alle connesse possibilità di impiego.
[19] Transforming Disability into Ability. Policies to Promote Work and Income Security for Disable People, OECD, 2003Del tema di è discusso nel corso di una conferenza che l’OCSE ha organizzato con il Centro Europeo per la ricerca e le politiche sociali il 6 ed il 7 marzo 2003 a Vienna.
[20] Sul tema si veda anche OECD, Policy Brief, “Disability programmes in need of reform”, marzo 2003, disponibile anche sul sito internet http://www. oecd.org/publications/Pol_brief.
[21] I principi riguardanti i diritti fondamentali che sono oggetto di tali convenzioni sono relative alla libertà di associazione e riconoscimento effettivo del diritto di contrattazione collettiva; eliminazione di ogni forma di lavoro forzato od obbligatorio; abolizione effettiva del lavoro infantile; eliminazione delle discriminazioni in materia di impiego e professioni.
[22] Code of practice. Managing disability in the workplace, International Labour Office, Geneva, 2002.
[23] CBR: a strategy for rehabilitation, equalization of opportunities, poverty reduction and social inclusion of people with disabilities: joint position paper, WHO, Geneva, 2004
[24] Achieving Equal Employment Opportunities for People with Disabilities through Legislation. Guidelines, International Labour Office, Geneva, 2004.
[25] Si fa presente che recentemente è stato approvato definitivamente (ma non ancora pubblicato)anche il disegno di legge S. 3674  recante “Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”.
[26] Né è stato utile a questo scopo la definizione di cui all’art. 3,L. 5 febbraio 1992 n. 104, “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, per cui “E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”. Si ricorda che questa definizione fa proprie le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità basate sul sistema di classificazione ICDH.
[27] Quest’ultime sono descritte dal punto di vista corporeo, individuale e sociale in due elenchi principali: 1) Funzioni e Strutture Corporee, 2) Attività e Partecipazione.  La classificazione elenca anche i fattori ambientali che interagiscono a determinare una situazione di disabilità. Questa infatti viene definita come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo, i fattori personali e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo.
[28] Va ricordato che l’ICF fornisce uno schema di codifica sistematico per i sistemi informativi sanitari
[29] Fonte:Rilevazione trimestrale sulle Forze Lavoro, ISTAT, 2002.
[30] Quelli senza riduzione o con riduzione di autonomia saltuaria e quelli senza problemi di salute si attestano intorno al 20%.
[31] la percentuale riguardante gli uomini varia dal 6,7 % (senza problemi di salute), al 9,2% per quelli con riduzione di autonomia continuativa.
[32] Le convenzioni stipulate nel Nord Est nel 2004 sono state 1.638 (1.663, nel 2003); nel Centro si è passati a 1.126 convenzioni da 1.003; nel Sud le convenzioni nell’ultimo anno rilevabile sono state 701 contro le 538 del 2003.
[33] Cfr. art. 17, L 28 febbraio 1987, n. 56, “Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro”, che abbozza quella che sarà la convenzione nella L. n. 68/99.
[34] Cfr. artt. 17 (“Formazione professionale”) e 18 (“Integrazione lavorativa”), L. n. 104/92. Merita, in particolare, attenzione l’art. 19, “Soggetti aventi diritti al collocamento obbligatorio”, che già valorizza la capacità lavorativa della persona con disabilità ai fini del collocamento.
[35] La tutela approntata nella L. n. 68/99 vede come destinatari, nell’ambito della disabilità, i seguenti soggetti:
– persone in età lavorativa con minorazione fisica, psichica o sensoriale, e portatori di handicap intellettivo con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%;
– invalidi del lavoro con minorazione uguale o superiore al 33%;
– non vedenti e sordomuti;
– invalidi di guerra, invalidi civili di guerra, invalidi per servizio con minorazioni dalla I alla VIII categoria.
[36] Cfr. definizione art. 1, comma 2, L. n. 68/99.
[37] Per gli invalidi civili l’accertamento sarà svolto dalla Commissione medica di accertamento presso l’ASL (art. 4, L. 5 febbraio 1992), secondo il DPCM 13 gennaio 2000; per quelli del lavoro, la competenza è dell’INAIL, che effettua la valutazione secondo le disposizioni del DPR 30 giugno 1965, n. 1124; per gli invalidi per servizio o di guerra, l’accertamento è affidato alle Commissioni mediche ospedaliere oppure potrebbe bastare, rispettivamente, un certificato comprovante la presenza in appositi elenchi presso la Prefettura competente o un certificato con attestazione del Comando o dell’Amministrazione di appartenenza. La valutazione dovrà essere conforme a quanto disposto dal DPR 23 dicembre 1978, n. 915.
[38] Anche la persona che non è cittadino UE può chiedere l’iscrizione purchè regolarmente residente nel nostro Paese.
[39]A seconda del numero di lavoratori occupati, le quote di riserva prescritte sono: 1 lavoratore per datori di lavoro che occupano dai 15 ai 35 dipendenti, ma in caso di nuove assunzioni; 2 lavoratori, per datori di lavoro che occupano dai 36 ai 50 dipendenti; il 7% degli occupati, per il datore di lavoro che occupa più di 50 dipendenti.
[40] Art. 4, comma 1, L. n. 68/99: “Agli effetti della determinazione del numero di soggetti disabili da assumere, non sono computabili tra i dipendenti i lavoratori occupati ai sensi della presente legge ovvero con contratto a tempo determinato di durata non superiore a nove mesi, i soci di cooperative di produzione e lavoro, nonché i dirigenti. Per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale si applicano le norme contenute nell’articolo 18, comma secondo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come sostituito dall’articolo 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108”. Per completezza sul punto si rinvia anche al dettato dell’art. 3, comma, DPR n. 333/00.
[41] Si leggano in proposito le limitazioni per i soggetti indicati nell’art. 3, commi 3 e 4, nell’art. 5, comma 1; per le esclusioni si rinvia all’art. 5, comma 2.
[42] Cfr. DM – Min. Lavoro – 7 luglio 2000, n. 357.
[43]Questo aspetto è di immediata evidenza dalla lettura dell’art. 2, che fornisce la definizione di “collocamento mirato” quale “serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi del posto di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione”.
[44] Si ricorda che la L. 12 marzo 1999, n. 68 è entrata in vigore il 18 gennaio 2000.
[45] Fra gli altri compiti: programmazione e coordinamento di iniziative volte a incrementare l’occupazione e ad incentivare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro anche con riferimento all’occupazione femminile; programmazione e coordinamento di iniziative volte a favorire l’occupazione degli iscritti alle liste di collocamento; programmazione e coordinamento delle iniziative finalizzate all’inserimento lavorativo delle categorie svantaggiate; indirizzo, programmazione e verifica dei tirocini formativi e di orientamento e borse di lavoro.
[46] La diagnosi funzionale, come chiarito dal legislatore è “volta ad individuare la capacità globale per il collocamento lavorativo della persona disabile” (art. 2, DPCM 13 gennaio 2000).
[47] Per completezza si rileva, che in alcune province, le parti sociali e le associazioni dei disabili sono parti del comitato tecnico.
[48] O comunque dove il rischio viene teoricamente temperato dalle disposizioni generali in materia di salute e sicurezza.
[49] Si veda il paragrafo 2
[50] Vedi ad esempio le province di Pistoia, Teramo, Cuneo.
[51] Si veda l’art. 9, comma 6 e, più dettagliatamente, l’art. 2, D.M. 22 novembre 1999, “Criteri relativi alla trasmissione dei prospetti informativi da parte dei datori di lavoro soggetti alla disciplina in materia di assunzioni obbligatorie di cui alla L. 12 marzo 1999, n. 68 recante «Norme per il diritto al lavoro dei disabili»”, che stabilisce la periodicità annuale dell’invio del prospetto informativo.
[52] L’art. 3, comma 1, D.M. 22 novembre 1999 prosegue indicando “f) limitatamente ai datori di lavoro privati, il numero delle convenzioni in corso stipulate ai fini dell’inserimento occupazionale dei disabili o con finalità formative, anche se non dirette ad instaurare un rapporto di lavoro, e il numero delle unità lavorative coinvolte, distinte per sesso e per età; g) la fruizione di autorizzazioni concesse o richieste a titolo di esonero parziale o di gradualità degli avviamenti limitatamente ai datori di lavoro privati, nonché di compensazione territoriale, con l’indicazione delle sedi in cui si assume, rispettivamente, in eccedenza o in riduzione, in base alla disciplina vigente, nonchè la fruizione della sospensione degli obblighi occupazionali”. Per completezza, l’omessa lettera d) si riferisce alla c.d. “categorie protette”.
[53] Si veda in proposito art. 15 comma 4, su cui ci si sofferma anche oltre.
[54] Né sarebbe possibile il ricorso all’art. 9, comma 5, per cui: “Gli uffici competenti possono determinare procedure e modalità di avviamento mediante chiamata con avviso pubblico e con graduatoria limitata a coloro che aderiscono alla specifica occasione di lavoro; la chiamata per avviso pubblico può essere definita anche per singoli ambiti territoriali e per specifici settori”.
[55] Si rinvia al paragrafo precedente per l’illustrazione degli aspetti problematici relativi al raccordo fra Commissioni mediche e Comitato tecnico. Sul punto si nota che solo nel caso in cui il lavoratore o il datore di lavoro, a fronte di individuate situazioni, ritengano necessario verificare la compatibilità fra stato di salute e mansioni, allora potrà intervenire la Commissione di accertamento.
[56] L’art. 9, comma 2, L. n. 68/99 recita: “In caso di impossibilità di avviare lavoratori con la qualifica richiesta, o con altra concordata con il datore di lavoro, gli uffici competenti avviano lavoratori di qualifiche simili, secondo l’ordine di graduatoria e previo addestramento o tirocinio da svolgere anche attraverso le modalità previste dall’articolo 12”. Stante il carattere aperto della norma non è da escludere l’inclusione fra gli strumenti di tipo convenzionale anche dell’art. 14, D.Lgs. n. 276/03.
[57] Per economia di esposizione non si concentra l’attenzione in questo contesto sull’assenza di un esplicito richiamo all’obbligo di adeguamento del posto di lavoro, in una fase precedente l’assunzione, pur in presenza di lavoratore che, diversamente dal caso considerato, abbia la qualifica richiesta. Preme solo sottolineare il profilarsi di una situazione discriminatoria non solo rispetto al soggetto con qualifica simile, ma anche rispetto alla situazione di cui all’art. 10, comma 3, L. n. 68/99, per cui, in caso di aggiornamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, “(…) Il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda”.
[58] Si ricorda, infatti, che la convenzione, secondo il disposto della L. n. 68/99, è l’unica modalità di assunzione dei disabili psichici.
[59] Prima dell’entrata in vigore della L. n. 68/99, l’esperienza delle convenzioni passa attraverso il tentativo di cui all’art. 17, L. n. 56/87. Queste convenzioni venivano stipulate fra le Commissioni regionali per l’impiego (Ministero del lavoro) e le imprese su iniziativa di queste ultime e si sostanziavano in un programma di assunzioni concordato fra le parti (datoriali e lavoratori) rappresentate in Commissione. L’eccessiva burocratizzazione delle procedure, in un contesto normativo di obbligatorietà dell’assunzione ne ha decretato il fallimento. Il dettato del combinato disposto dell’art. 9, comma 7, e dell’art. 11, comma 4, L. n. 68/99, rivaluta questo strumento per la promozione di occasioni di lavoro per questi soggetti di più difficile collocazione.
[60] Sul punto l’Accordo precisa che le convenzioni devono prevedere una durata legata ai seguenti parametri: “il volume dell’intera quota di riserva ancora disponibile per i lavoratori disabili in rapporto all’entità della copertura (totale o parziale) prevista dalla convenzione; b) la valutazione degli investimenti necessari per riorganizzare il sistema socio-tecnico dell’impresa in rapporto alle specifiche condizioni del soggetto disabile; c) la valutazione dell’impegno diretto dal datore di lavoro relativo all’occupabilità del soggetto disabile in termine di partecipazione agli oneri per le attività di tirocinio di orientamento o di formazione professionale; ovvero attraverso l’attivazione della rete dei servizi territoriali: servizi per l’impiego, enti di orientamento e/o formazione professionale, cooperative sociali, enti bilaterali, organismi associativi”.
[61] Si vedano gli artt. 17 e 18 della L. n. 104/92.
[62]Il primo comma dell’art. 12, L. n. 68/99, rubricato “Cooperative sociali”, recita: “Ferme restando le disposizioni di cui agli articoli 9 e 11, gli uffici competenti possono stipulare con i datori di lavoro privati soggetti agli obblighi di cui all’art. 3, con le cooperative sociali di cui all’art. 1, comma 1, lettera b), della legge 8 novembre 1991, n. 381, e successive modificazioni, e con i disabili liberi professionisti, anche se operanti con ditta individuale, apposite convenzioni finalizzate all’inserimento temporaneo dei disabili appartenenti alle categorie di cui all’articolo 1 presso le cooperative sociali stesse, ovvero presso i citati liberi professionisti, ai quali i datori di lavoro si impegnano ad affidare commesse di lavoro. (…)”.
[63] D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, “Riforma organica della disciplina delle società di capitai e società cooperative, in attuazione della L. 3 ottobre 2001, n. 366”
[64] In un’ottica di reale promozione dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità è spontaneo chiedersi perché non proseguire sulla strada della possibilità aperta a tutti i datori di lavoro, anche ai non obbligati. Questa circostanza rafforza l’opinione di chi in dottrina non ha mancato di osservare uno scivolamento dalla promozione all’obbligo, peraltro comprensibile in un momento di passaggio in quel periodo molto delicato in materia di politiche del lavoro.
[65]La relativa somma “non deve essere inferiore a quello che consente alla cooperativa stessa ovvero al libero professionista (…) di applicare la parte normativa e retributiva dei contratti collettivi nazionali di lavoro, ivi compresi gli oneri previdenziali e assistenziali, e di svolgere le funzioni finalizzate all’inserimento lavorativo dei disabili”
[66] Salvo diverso avviso del CT indica a quali condizioni.
[67]Art. 14. – Cooperative sociali e inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati
1. Al fine di favorire l’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati e dei lavoratori disabili, i servizi di cui all’articolo 6, comma 1, della legge 12 marzo 1999, n. 68, sentito l’organismo di cui all’articolo 6, comma 3, del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, così come modificato dall’articolo 6 della legge 12 marzo 1999, n. 68, stipulano con le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale e con le associazioni di rappresentanza, assistenza e tutela delle cooperative di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 8 novembre 1991, n. 381, e con i consorzi di cui all’articolo 8 della stessa legge, convenzioni quadro su base territoriale, che devono essere validate da parte delle regioni, sentiti gli organismi di concertazione di cui al decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, e successive modificazioni ed integrazioni, aventi ad oggetto il conferimento di commesse di lavoro alle cooperative sociali medesime da parte delle imprese associate o aderenti.
2. La convenzione quadro disciplina i seguenti aspetti:
a) le modalità di adesione da parte delle imprese interessate;
b) i criteri di individuazione dei lavoratori svantaggiati da inserire al lavoro in cooperativa; l’individuazione dei disabili sarà curata dai servizi di cui all’articolo 6, comma 1, della legge 12 marzo 1999, n. 68;
c) le modalità di attestazione del valore complessivo del lavoro annualmente conferito da ciascuna impresa e la correlazione con il numero dei lavoratori svantaggiati inseriti al lavoro in cooperativa;
d) la determinazione del coefficiente di calcolo del valore unitario delle commesse, ai fini del computo di cui al comma 3, secondo criteri di congruità con i costi del lavoro derivati dai contratti collettivi di categoria applicati dalle cooperative sociali;
e) la promozione e lo sviluppo delle commesse di lavoro a favore delle cooperative sociali;
f) l’eventuale costituzione, anche nell’ambito dell’agenzia sociale di cui all’articolo 13 di una struttura tecnico-operativa senza scopo di lucro a supporto delle attività previste dalla convenzione;
g) i limiti di percentuali massime di copertura della quota d’obbligo da realizzare con lo strumento della convenzione.
3. Allorché l’inserimento lavorativo nelle cooperative sociali, realizzato in virtù dei commi 1 e 2, riguardi i lavoratori disabili, che presentino particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario, in base alla esclusiva valutazione dei servizi di cui all’articolo 6, comma 1, della legge 12 marzo 1999, n. 68, lo stesso si considera utile ai fini della copertura della quota di riserva, di cui all’articolo 3 della stessa legge cui sono tenute le imprese conferenti. Il numero delle coperture per ciascuna impresa e’ dato dall’ammontare annuo delle commesse dalla stessa conferite diviso per il coefficiente di cui al comma 2, lettera d), e nei limiti di percentuali massime stabilite con le convenzioni quadro di cui al comma 1. Tali limiti percentuali non hanno effetto nei confronti delle imprese che occupano da 15 a 35 dipendenti. La congruità della computabilità dei lavoratori inseriti in cooperativa sociale sarà verificata dalla Commissione provinciale del lavoro.
4. L’applicazione delle disposizioni di cui al comma 3 e’ subordinata all’adempimento degli obblighi di assunzione di  lavoratori disabili ai fini della copertura della restante quota d’obbligo a loro carico determinata ai sensi dell’articolo 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68.
[68] Per completezza si riporta il testo dell’art. 14
[69] Per un quadro d’insieme sulle politiche dell’Unione si rinvia al paragrafo 3.
[70] In particolare, si sostiene che ci sia un ulteriore obiettivo che ha come target le amministrazioni provinciali, in relazione alle quali si vuole accertare se lo strumento normativo consente di realizzare più agevolmente le politiche attive per l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate e delle persone con disabilità.
[71] Il numero delle coperture per ciascuna impresa è determinato sulla base dell’ammontare annuo delle commesse conferite.
[72] Sentenza della Corte Costituzionale sulla solidarietà
[73] L’incontro, che si è svolto il 19-21 gennaio 2006 ha sottolineato la necessità di integrare il coordinamento delle politiche di protezione e inclusione sociale con la Strategia di Lisbona sia a livello comunitario sia nazionale per garantire che le politiche economiche, sociali e per l’occupazione assicurino vantaggi reciproci. E’ la radice della nuova filosofia della c.d. “flexicurity”
[74] Si osserva che anche i datori di lavoro che non rientrano nell’ambito di applicazione della legge possono comunque usufruire di questi incentivi (art. 13, comma 2). In molte regioni, il Fondo regionale supporta finanziamenti ai soggetti non obbligati per innescare un meccanismo di collaborazione virtuosa. Va segnalato, peraltro, che l’art. 3, comma 1, del DM n. 91/2000 comprende tra i beneficiari delle agevolazioni previste dall’art. 13 della L. n. 68/99 sia le cooperative sociali di tipo b), che i consorzi, che i soggetti che stipulano convenzioni ex art. 11, comma 5.
[75] Lo stesso tipo di fiscalizzazione è riconosciuta alle persone con minorazione inclusa fra la prima e la terza categoria del T.U. sulle pensioni di guerra (DPR n. 915/78).
[76] Ci si potrebbe soffermare anche sulla necessità di rimodulare il sistema di incentivi anche in considerazione del dato soggettivo connesso più che alla percentuale della disabilità al tipo di disabilità. Sembra più corretto, peraltro, che una tale valutazione non sia disgiunta da un intervento sulla definizione dei soggetti che hanno diritto ai servizi del collocamento mirato. In questo senso potrebbero essere fugate eventuali osservazioni sul carattere non più incentivante ma risarcitorio di un tale intervento (quest’ultimo molto poco coerente con il collocamento mirato).
[77] Va aggiunto che si prevedono dei momenti di verifica periodica sulla prosecuzione delle agevolazioni dopo cinque anni, nonchè sugli effetti delle agevolazioni e sull’adeguatezza delle risorse finanziarie entro tre anni dall’entrata in vigore della legge stessa.
[78] Si veda in proposito anche l’art. 6, D.M. 13 gennaio 2000, n. 91.
[79] L’art. 9, comma 4, infatti prevede che i datori di lavoro hanno diritto alle agevolazioni di cui all’art. 13.
[80] Si rinvia al paragrafo relativo alle audizioni svolte e in particolare alle osservazioni delle associazioni datoriali, della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome.
[81] Art. 4, D.M. 13 gennaio 2000, n. 91.
[82] Si permette di rinviare al paragrafo precedente sulla rilevanza del sistema a rete e sulla maggior incisività di strumenti e servizi che mettano in relazione fra loro i differenti attori sociali ed istituzionali nella realizzazione efficiente degli obiettivi della legge.
Fonte: www.anci.it
nw007 (2006)


 Newsletter della Storia dei Sordi n.7 del 7 aprile 2006

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